Logo, simbolo, marchio. Siamo circondati da essi, se ci pensate. Molto probabilmente state leggendo quest’articolo da un computer con il logo a finestra in basso a sinistra o con una mela morsicata in alto a destra. Se allargate la vostra visuale magari sotto lo schermo è presente il nome della nota multinazionale sudcoreana con la A che sembra una V rovesciata, magari state indossando una maglia di un brand sportivo tedesco con tre striscie sulle maniche, probabilmente avete nel portamatite le matite corte svedesi con il logo da quattro lettere in bella vista.
Insomma, siamo circondati. Che piaccia o meno, che possiate contestarlo urlando “No alla vostra mercé” bevendo cioccolata Nestlé, siamo costantemente sottoposti a stimoli visivi che permettono l’associazione di un determinato simbolo a un determinato prodotto.
Ed è sempre stato così anche nel variopinto mondo del calcio. Un logo potente, d’impatto, che racchiuda assieme ai colori sociali una vera e propria identità di squadra. E per il tifoso più c’è un’identità di squadra più è facile identificarsi. Che sia attraverso il tifo organizzato o comprando la maglietta e guardando le partite da casa, il tifoso si troverà sempre a gioire o a piangere sempre e comunque sotto un logo che lo accomuna con decine, centinaia, migliaia di persone. Il tifoso è comunque un’essere umano, e si sa che l’uomo è pur sempre un animale sociale.
Ma cosa succede quando il logo cambia?
L’uomo, si sa, può essere aperto fino a un certo punto, ma guai a toccare qualcosa di sacro come la fede calcistica. E la fede calcistica passa soprattutto e attraverso il logo che 11 giocatori hanno in comune sulla maglia da gioco ogni dannata domenica.
Bene o male tutte le società di Serie A hanno un logo che è frutto dell’evoluzione nel corso di un secolo circa di storia delle suddette. Il logo della Fiorentina, per dire, è figlio in un certo senso della geometria, poiché in seguito al Giglio di Firenze apparso sulle maglie biancorosse (per ricomparire nel 2003 sulle maglie della Florentia Viola) i vari gigli che si sono succeduti sulle maglie fiorentine sono sempre stati inseriti all’interno di rombi, per dar più risalto al logo posizionato sul cuore.
Il logo attuale, che si rifà a questa tradizione storica, è completamente in contrasto con l’altro logo altrettanto famoso e duramente contestato all’epoca, ovvero il “Giglio Alabardato”dei Poltello, che stazionava non sul petto ma bensì al centro della maglia. Pensando poi alle milanesi¸il logo del Milan è il cosiddetto scudo che implementa le strisce rossonere con la Croce di San Giorgio, simbolo della città di Milano. La stessa croce che è rimasta in bella mostra sulla maglia rossonera nel 2015, relegando il logo rimodernato nel 1998 alla terza divisa.
Sulla sponda nerazzurra il logo attuale è praticamente lo stesso del 1908, con le lettere F C I M all’interno dei cerchi, che fecero spazio negli anni 80 a uno scudo con una banda nerazzurra e il biscione dei Visconti. Sul Tevere invece, se da una parte l’Aquila capeggia maestosa sullo scudo biancoceleste, facendo pure una ricomparsa con il logo storico degli anni 80 sulla terza maglia del 2015, il restyling del logo della Roma non è stato accolto benissimo dai tifosi, alludendo al fatto che l’avvento della scritta ROMA al posto dell’acronimo ASR degli anni 30 abbia dato un effetto “maglia tarocca da bancarella” alla squadra di Totti. Evolvere il logo con il giusto riguardo alla storia della società è una scelta dovuta, mantenendo sempre i riferimenti alla propria città, come può essere la Torre Pendente all’interno dello stemma del Pisa, il simbolo turistico per eccellenza della città toscana. Una scelta che non è stata nei piani di Interbrand con il restyling del logo della Juventus, scatenando un polverone fatto di lodi e critiche.
L’evento che ha svelato al mondo il nuovo logo della vecchia Signora si è tenuto a Milano, al Museo della Scienza e della Tecnica, dove il presidente Andrea Agnelli ha fatto da gran cerimoniere al cospetto di personalità dello sport e della moda come Pavel Nedved e Emily Rataikowsky. Logo che, di primo impatto, non ha nulla a che vedere con Torino e con i simboli della Juventus. Il nuovo logo, creato dall’agenzia Interbrand, già autrice del restyling del 2004, è composto de facto da due J sormontate dalla scritta Juventus. È quindi sparito il riferimento alla città di Torino con il toro rampante, sparito il giallo in favore del solo bianco e nero finendo per stilizzare con le curve delle J un araldico scudo francese antico, la stessa forma dello scudetto tricolore della Serie A.
Daniel Nyari, designer di New York, intervistato da goal.com, ha dichiarato parlando di marketing e di rilancio del brand che “lo stemma precedente aveva troppi elementi in conflitto l’uno contro l’altro, superflui in gran parte.”. Un ragionamento che si amplia alla globalizzazione e alla ricerca dei tifosi in ogni parte del pianeta, come dimostrano gli innumerevoli tour estivi delle grandi squadre europee nell’est del mondo. Se non fosse che Real Madrid, Barcellona, Manchester United e Bayern Monaco (finora) non hanno stilizzato all’eccesso il proprio stemma.
L’internalizzazione del brand è una descrizione ricorrente in vari articoli che parlano di questa scelta di stile per la Juventus. Associando la doppia J a degli ideogrammi giapponesi, di certo d’impatto per il ragazzo di Yokohama tifoso del Marinos rimasto affascinato dalla Juventus campione del mondo nel 1996 ma non per il drugo presente ogni domenica allo Juventus Stadium.
Basare il nuovo logo sulla J è una scelta coraggiosa, che va a ricordare l’emozione che provava Gianni Agnelli ogni volta che leggeva della Juventus sui quotidiani sportivi del lunedì, piazzando una bandierina sull’alfabeto del marketing occupato alla G da Google e alla A da Amazon. La Red Bull ha fatto del marketing l’arma più forte, snaturando con il proprio reparto grafico anni e anni di storia sportiva delle realtà che ha acquistato. Perché per quanto il logo nuovo della Juventus sia azzeccato per comparire sul merchandising c’è da chiedersi se, nel lungo periodo, quanto sarà accettato dal tifoso depredato delle sette strisce e del toro rampante. A Bari nei due anni di proprietà russa il galletto aveva ceduto il passo a “undici striscie” e al logotipo della società scritto in Noorda, perché il gallo nella tradizione russa è riconducibile all’omosessualità. Un logo che non aveva niente in comune con la fu società di Matarrese, che dopo il cambio di proprietà ha di nuovo il proprio pennuto su di un pallone.
Sulla sponda blu di Liverpool, con il cambio di proprietà in nome del marketing e della semplificazione nel 2013 arrivò un restyling del logo che i tifosi hanno odiato fin da subito, con la sparizione del motto in latino e la Prince Rupert’s Tower ridotta a “casa degli gnomi”. La dirigenza dell’Everton però non è stata sorda a tali richieste e, nella stagione successiva, ha quindi fatto scegliere ai tifosi un logo più in linea con la propria storia. Il restyling dello stemma della Juventus è quindi, per quanto sia rivoluzionario, una conferma di come la grafica legata al mondo del marketing stia proseguendo sulla strada della semplificazione, sull’ottenere marchi semplici e spogli di ogni fardello ottimizzandone la riproduzione in ogni contesto, dalla maglia all’applicazione per smartphone. Perché per quanto la J possa essere facilmente riconducibile alla Juventus, così come al Joker o al Jolly, questa manovra bianconera è molto più di un azzardo che, oltre a dare uno strappo al passato, taglia i rapporti con la città che gli ha dato i natali e dove ha la sede sociale, inseguendo con un’internalizzazione forzata il pubblico globale e restando dietro società come il Barcellona o il Manchester United nella classifica dei club più ricchi al mondo. Società che non hanno reso necessario portare ai minimi termini il proprio stemma denso di storia sportiva.
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