Giovanni Ferrari negli anni ‘30 è ricordato nelle cronache come la mezzala metodista per eccellenza. Per capire la sua importanza nella storia del calcio italiano possiamo iniziare col dato statistico più secco disponibile, cioè snocciolarne il palmares: otto scudetti (come Rosetta e Furino, tuttavia unico a vincerli con tre squadre in un orizzonte di tempo brevissimo: dal 1931 al 1941), due Mondiali (anche in questo caso condivide il titolo con altri due compagni: Giuseppe Meazza ed Eraldo Monzeglio) e una Coppa Internazionale.
Nato ad Alessandria il 6 dicembre 1907, inizia a giocare a pallone praticamente da bambino, come era quasi naturale in quelle terre in cui lo sport più amato del Paese stava crescendo. A quattordici anni la sua classe viene notata dalla squadra cittadina, che lo porta nelle sue giovanili. Esordisce coi grigi nel 1923, a soli sedici anni, ma dopo due stagioni più no che sì va a Napoli col suo mentore, il giovane allenatore Carlo Carcano. Con la maglia azzurra dell’Internaples il suo talento esplode: gioca tra il centrocampo e l’attacco e in una coppia efficace e fortunata con l’altro interno Ernesto Ghisi segna sedici gol in quindici partite. Il team napoletano arriva in finale di Lega Sud, ma la perde coi biancoverdi dell’Alba Roma. I romani poi andranno a schiantarsi contro la Juventus nella finale nazionale (una Juventus che aveva già l’ossatura dello squadrone del Quinquennio, ma questa è un’altra storia).
L’ottima annata napoletana convince l’Alessandria a riportare a casa il Gioanìn e Carcano pagando ben 12.000 lire. Le ultime stagioni in grigio sono avare di successi (a parte la Coppa CONI del 1927), ma lo mettono in evidenza come uno dei talenti più fulgidi del calcio italiano, facendo nascere anche una certa rivalità con l’esperto torinista Baloncieri. Nella stagione ‘27/’28 l’Alessandria perde lo scudetto per tre punti nel girone finale, ma le sue prestazioni (24 gol in 32 partite) gli permettono di trattare con la società: nel 1929 resta anche senza un miglioramento del contratto, ma dall’estate successiva è libero di accasarsi in una grande squadra metropolitana. Il primo campionato a girone unico va molto bene con 19 reti che portano i grigi al sesto posto finale, e nonostante il tentativo di boicottaggio della dirigenza che lo esclude dalle ultime partite, nell’estate del 1930 raggiunge il suo ex mister a Torino, sponda bianconera: nel 1930 nasce la Juventus del Quinquennio, la Juventus che monopolizzerà il calcio italiano per la prima metà degli anni ‘30, segnando definitivamente gli equilibri dello sport in Italia.
Nella nuova squadra Ferrari limita le sue velleità offensive per servire una prima linea composta da talenti assoluti dell’attacco come Cesarini (quello della famosa Zona), Orsi e Borel II, emergendo ancora di più come centrocampista completo e “motore” del metodo. La Juventus, unita da fuoriclasse di livello continentale e guidata dalla solidità societaria della famiglia Agnelli, domina il campionato senza rivali, portando a casa cinque scudetti consecutivi dal 1931 al 1935. Nel febbraio del 1930 esordisce nella Nazionale di Vittorio Pozzo, e in breve tempo si compone la coppia di interni che resterà nella leggenda assieme all’interista Giuseppe Meazza. I due conquisteranno la Coppa del Mondo nel 1934 e nel 1938 e la Coppa Internazionale del 1935. Anche in azzurro non manca di farsi valere come goleador: vanno ricordati due suoi gol, il primo alla Spagna del celebre portiere Zamora che vale l’1-1 nel primo match del quarto di finale dei mondiali 1934, e prima, il 13 maggio 1933 il momentaneo 1-0 nell’amichevole contro l’Inghilterra. Dalle sue parole: “Ho battuto Zamora nel Mondiale del 1934 a Firenze, però la maggiore soddisfazione la provai l’anno precedente, a Roma, contro gli inglesi. Erano i maestri. Con un lungo tiro ingannai il portiere Hibbs; peccato che, poco dopo, Bastin ottenne il pareggio che, tuttavia, ci fece onore. Il mistero sugli inglesi, ritenuti invincibili, incominciò a svelarsi”. Qualche anno dopo saranno proprio gli inglesi dell’Arsenal a proporgli un ingaggio, all’epoca un caso straordinario per un calciatore italiano, ma lui rifiuterà.
La morte di Edoardo Agnelli nel 1935 costringerà la Juventus a un pesante ridimensionamento economico: di fronte a un mancato adeguamento dell’ingaggio Ferrari lascia i bianconeri e si accasa all’Ambrosiana-Inter, desiderosa di ricomporre la coppia di interni della nazionale campione del mondo. La coppia con Meazza funziona ancora alla grande, un meccanismo così perfetto che Peppino si laurea due volte capocannoniere, e l’Inter vince il campionato ‘37/’38. In nerazzurro però le fortune saranno più brevi: dalla stagione ‘38/’39, l’avanzare degli anni e i frequenti acciacchi fisici convincono il nuovo allenatore austriaco Tony Cargnelli ad accantonare la coppia di interni azzurri, e puntare sui giovani. Giovanni vince il suo settimo scudetto nel ‘39/’40 con sole otto presenze, e poi lascia Milano per i colori rossoblù del Bologna.
Nella città felsinea, l’ormai trentatreenne fuoriclasse viene inserito in un team di grande talento, ma dall’età media piuttosto alta, che costringerà il mister Hermann Felsner ad attuare una sorta di turn over ante litteram. Ferrari si alterna ad Andreoli e Raffaele Sansone nel ruolo di interno dietro le punte, colleziona diciotto presenze e aiuta il Bologna a vincere con largo anticipo il suo sesto scudetto, l’epilogo del leggendario “squadrone che tremare il mondo fa”. Maestro di calcio oltre che campione, decide di ritirarsi dal calcio giocato e di iniziare la carriera come tecnico, provando a partire subito in salita come giocatore-allenatore della Juventus nella stagione successiva, un’esperienza sfortunata come quella della stagione successiva sulla panchina dell’Ambrosiana.
Nel dopoguerra ha varie avventure in squadre di medio livello tra A e B, finché non entra nei ranghi federali nel 1950. Da qui inizia come istruttore per poi trovarsi sulla panchina della Nazionale nel 1958, a raccogliere i cocci per ricostruire qualcosa di buono dopo le disastrose qualificazioni mondiali dell’anno prima, pagina nera ancora fortunatamente senza eguali nella nostra storia. Costruisce la nuova Nazionale su oriundi di classe come Sivori e Altafini e la squadra si avvicina brillantemente al mondiale cileno tra le favorite della vigilia. Qui entra in scena un autentico papocchio all’italiana: pochi mesi prima della fase finale la Federazione gli affianca l’allenatore dell’Inter Helenio Herrera e il presidente della SPAL Paolo Mazza. Il bizzarro trio dura pochissimo, perché Herrera abbandona una barca evidentemente instabile. Lo staff azzurro affronta un mondiale nel caos e l’Italia viene eliminata dopo la nota “Battaglia di Santiago” (Cile-Italia 2-0). La sua ultima apparizione pubblica fu al Camp Nou di Barcellona, nella cerimonia inaugurale del Mundial 1982. Morirà il 7 dicembre di quello stesso anno a Milano.
29 anni, da Trieste, educatore, appassionato di sport (da spettatore), videogames, e altre cose, devo controllare la presentazione che ho scritto su Tinder.
22 Maggio 2017
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15 Maggio 2017
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29 anni, da Trieste, educatore, appassionato di sport (da spettatore), videogames, e altre cose, devo controllare la presentazione che ho scritto su Tinder.
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