Recensioni a cura di: Raffaele Lauretti, Marco Meloni, Vittorio Comand, Samuele Raffa della redazione Musica&Arti.
1 Blu Rider Songs, Scott Hirsch
Dopo aver passato quasi dieci anni al fianco di M.C. Taylor negli Hiss Golden Messenger, Scott Hirsch regala al mondo il suo primo album da solista, Blue Rider Songs, per l’etichetta Scissor Tail Records. Il disco, composto da undici tracce, è un interessante connubio di country e folk con molti elementi del rhythm and blues, del funk e del soul e l’aggiunta di chitarre effettate e drum machine. Hirsch, grazie alla sua voce calma e rilassata e al suo delicato tocco sulla chitarra, ricorda molto da vicino J.J. Cale (la cui canzone Call Me the Breeze viene citata dallo stesso Hirsch in Blue Rider), ma con la sana voglia di sperimentare e di mischiare vari generi diversi fra loro. Fra i brani più riusciti dell’album meritano una menzione in particolare Loss of Forgetfulness e soprattutto The Sun Comes Up a Purple Diamond. La prima è una ballata vagamente languida con tanto di fiati e assolo di sax; la seconda una cover di un brano già registrato da Hirsch con il progetto Golden Gunn nel 2013, trasformato da pezzo folk abbastanza smorto e piatto in un elegante blues dal retrogusto soul. Con Blue Rider Songs, Hirsch dimostra di essere maturo per continuare la sua carriera solista, grazie alla sua capacità di tirare fuori qualcosa di interessante da un genere musicale che sembrava non avere più niente da dire.
2 Primadonna, Vince Staples
Le prime parole di “This Little Light Of Mine” strascicate per circa 30 secondi e un colpo di pistola: è così che si apre Primadonna, nuovo ep di Vince Staples; lo stesso si era già fatto notare con Summertime ’06, un doppio disco dal sapore fortemente autobiografico. Stabilire quanto ci sia di personale in questo nuovo progetto è difficile, ciò che è certo è che la voce narrante, al pari di Staples, soffre le attenzioni dovute alla carriera musicale di successo, attenzioni così fastidiose da portarlo al suicidio. Non è la prima volta che un disco segue una struttura simile: “Undun” dei The Roots si apre con la morte del protagonista che, disorientato, racconta di sé stesso dall’aldilà. La morte, com’è quasi ovvio, è qualcosa di tragico e che sorprende il narratore e lo costringe a fermarsi, a fare ordine nella propria esistenza. In Primadonna, quel colpo che viene sparato è invece lo zenith di un’esistenza misera, insoddisfacente, mai piaciuta al suo protagonista. Questo “Primadonna” riconferma le capacità di Staples e, anzi, alza di ancora un po’ l’asticella. In appena venti minuti di influenze blues, industrial rock ed elettronica “astratta”, viene dipinta un’esistenza decadente irrimediabilmente intrecciata alle distinzioni razziali che in America esistono. Nessuna retorica, soltanto un rappato eccezionale e una scrittura lucidissima.
Disponibile su Spotify
3 Blossoms, Blossoms
I Blossoms arrivano al debutto con un album omonimo, che nonostante sia uscito questo mese potrebbe benissimo essere collocato nel panorama musicale degli anni ’80. Infatti la band inglese cerca di riprendere molto delle sonorità del periodo, in particolare l’uso del sintetizzatore e delle tastiere in generale è da considerare come un salto indietro di 30 anni (in positivo). L’album abbraccia quasi tutto lo spettro dei sound più in voga di quel periodo: in 12 tracce riesce a spaziare dal rock à la Blondie a pezzi più pop che quasi urlano “Duran Duran!”. Come è possibile immaginare si tratta quindi di un album quasi nostalgico: per i più giovani si tratta di un’occasione per conoscere un decennio musicale che non si è vissuto, per quelli meno giovani è un’occasione di rivivere quel periodo in chiave moderna. È un album pop piuttosto semplice, non mira certo a una rivoluzione, ma non risulta affatto banale né stucchevole. Il lancio dell’ep è stato seguito dal singolo “Charlemagne”, che ne rappresenta anche la prima traccia. Consigliatissimo per un ascolto spensierato di ritorno dalle vacanze.
4 No, My Name is JEFFREY, Thug
Nonostante gli insistenti tentativi di personaggi illustri come Kanye West o Drake, il 2016 è probabilmente l’anno in cui è stato Young Thug a brillare più di altri. Con la promessa di cambiare nome nel caso questo disco non venda centomila copie nei primi sette giorni dalla pubblicazione, Thug presenta quello che è forse il migliore fra i tre progetti che portano il suo nome quest’anno. Per l’occasione, nella copertina di “No, My Name Is JEFFERY”, veste un intricato abito italiano. Dieci brani capaci di variare il giusto, che mantengono il suono abbastanza fresco e che portano il nome di alcuni idoli del rapper di Atlanta, tra cui Harambe – l’amato gorilla dello zoo di Cincinnati. Nessuno ha mai cercato in Young Thug delle strofe ispirate, criptiche, capaci di far riflettere e, ancora una volta, il trend si riconferma: l’unico vero modo per ascoltare questo disco è in auto a volumi vergognosamente alti, godendo dell’attitudine così “carefree”, vero e proprio segno distintivo di Jeffery, salutando l’estate sui ritmi di “Wycleaf Jean” e “Pick Up The Phone”, tra i migliori brani del disco.
5 The Bible 2, AJJ
Il 12 agosto è uscito “The Bible 2”, sesto album in studio degli AJJ (ex Andrew Jackson Jihad), rilasciato tramite un processo particolare, in quanto il gruppo ha deciso di far uscire, dopo i singoli “Goodbye, Oh Goodbye” e “Junkie Church”, un pezzo al giorno sul loro Bandcamp dal 4 Agosto fino al 12. Circa mezzora di musica divisa in 11 brani, l’album si presenta come l’ennesimo distacco degli artisti dalle loro sonorità più classiche, ma appare insicuro della sua identità. A metà fra l’alternative rock simil Modest Mouse e il folk punk tipico degli AJJ dei vecchi tempi, a tratti estremamente low-fi e a tratti cristallino. Meno sonorità acustiche e più strumentazione elettrica, più distorsione, più sperimentazione. Nei testi si legge meno cinismo ed edgyness, che erano un po’ i trademark della band, forse in seguito a una crescita interiore dei membri del gruppo, ma che comunque (fortunatamente) ancora sono lì ad accompagnarci in un piacevole viaggio attraverso la mediocrità e lo squallore che ci circondano. Un album indeciso ma tutto sommato godibile, coi suoi alti e bassi, ma che alla fine non tradisce l’animo degli AJJ. Hanno fatto di meglio? Hanno fatto di peggio? Probabilmente sì in entrambi i casi, ma è un disco che si inserisce in un processo evolutivo e che ha motivo di esistere. L’album si ascolta, e si ascolta volentieri, soprattutto considerando che è disponibile gratuitamente su bandcamp…
Credits: Raffaele Lauretti (Staples e Thug), Samuele Raffa (Blossom), Marco Meloni (ajj), Vittorio Comand (Blue rider).
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