Ai tempi del primo film targato X-Men, per affiancare il Magneto di Sir Ian McKellen ed il Professor X di Sir Patrick Stewart, fu scelto Dougray Scott come interprete del celebre mutante Wolverine, uno dei personaggi di punta della Marvel Comics. Nonostante ciò erano anche i tempi di Mission: Impossible II, film per il quale lo scozzese aveva già preso impegno, ed all’ultimo si dovette ricorrere ad un piano di emergenza. Fortunatamente Russel Crowe, Il Gladiatore, fece il nome di un suo collega e connazionale poco più che trentenne, ma con una lunga esperienza in teatro e tv. La carriera dell’uomo in questione era iniziata col botto, ma col passare degli anni sembrava sempre più destinata ad arenarsi tra i confini della madrepatria. L’australiano che il lungimirante Russel suggerì ai piani alti della Fox era Hugh Jackman.
Il film di Bryan Singer, chiamato semplicemente X-Men ed uscito nella seconda metà del 2000, risollevò il genere supereroistico assieme allo Spider-Man di Sam Raimi, dopo le colossali sbandate di Batman Forever e Batman & Robin che sembravano averlo affondato definitivamente. Ora, dopo diciassette anni e dieci pellicole dell’universo mutante è arrivato il capolinea per Jackman, che purtroppo invecchia ad un ritmo umano a differenza dell’artigliato canadese creato nel 1974 da Herb Trimpe, Len Wein e dal grande John Romita Sr.
In mezzo ci sono stati tanti bei film (come Guardiani della Galassia, Doctor Strange e Batman Begins) ma altrettanti scivoloni. Rimanendo negli stessi universi dei due fautori della rinascita è impossibile non citare i loro sequel: X-Men 3 e Spiderman 3; al contempo nella hall of shame vanno ricordati anche i vari Elektra, Iron Man 2 e Superman Returns. Nonostante ciò al giorno d’oggi non è così folle considerare quello dei “cinefumetti” un genere a sé stante, e non più solo una sfumatura dei film d’azione.
Arrivando ai film con protagonista in solitaria James Logan Howlett/Wolverine, ci sono due precedenti oltre al film recensito più in basso, e più che scivoloni sono veri e propri suicidi: X-Men: Le origini di Wolverine, del 2009 e Wolverine: L’immortale, del 2013. Le prestazioni di Hugh Jackman sono sempre state ottime, ma il personaggio è stato ripetutamente penalizzato da storie scritte male e da scelte infelici da parte della produzione. Pur di mantenere un Parental Guidance adatto ai minorenni ha costretto i registi a montaggi frenetici nel tentativo di non far vedere il protagonista che squarta gli scagnozzi di turno, anche se fondamentalmente è quello che fa per la maggior parte del tempo. Ed è il migliore a farlo.
Questo Logan – The Wolverine ha in comune con L’Immortale il regista James Mangold, che ha molte cose da farsi perdonare. O bisognerebbe dire aveva, perché il realizzatore di Quel treno per Yuma ce la fa in pieno.
È solo lontanamente (leggasi: per niente) ispirato dalla run del 2008 Old Man Logan scritta da Mark Millar, che vede come protagonisti un anziano Logan ritirato a vita famigliare ed un Occhio di Falco ormai cieco, in un futuro distopico nel quale i supercriminali, guidati dal Teschio Rosso, hanno sconfitto una volta per tutte i supereroi, uccidendoli per poi spartirsi a zone il controllo degli Stati Uniti.
La pellicola è ambientata nel 2029, sei anni dopo il futuro riscritto da X-Men – Giorni di un Futuro Passato, anni durante i quali il supergruppo ha smesso di esistere ed i mutanti stessi sono giunti sull’orlo dell’estinzione. Qui i co-protagonisti sono un Professor Xavier ormai novantenne e la giovane Laura Kinney, la X-23 dei fumetti, che porta un po’ di speranza nel futuro della razza mutante.
Il film è un road movie disperato e malinconico, come solo le storie di addio ad un eroe sanno essere. Guardando al rapporto tra il protagonista e la piccola Laura è impossibile non pensare al capolavoro videoludico The Last of Us, paragone scomodo che il film si è portato dietro sin dal primo trailer. Come i veterani Jackman e Stewart, la anglo-spagnola classe 2005 Dafne Keen sfodera una grandissima prestazione. Curiosamente in italiano è doppiata da Ginevra Pucci, figlia di Fabrizio, doppiatore storico del mutante artigliato.
È un film stand-alone che finalmente rende piena giustizia al personaggio, concentrandosi però sul suo lato più umano: viene mostrato stanco, malconcio e tormentato dal passato, e come se non bastasse invecchiato per colpa del fattore di guarigione sempre più debole (ma non disperino le donne, ha ancora un fisico da rivista). Un Wolverine così probabilmente non lo vedremo mai più. Anche i momenti divertenti non mancano, alla faccia degli estremisti della Nolan-way e dei film che si prendono troppo sul serio: sono però battute amare, perfettamente in linea con la storia del film e funzionali a far entrare lo spettatore in sintonia con i personaggi.
James Mangold ce l’ha fatta. È stato bravo a lasciarsi alle spalle il precedente scomodo di Wolverine: L’Immortale ed ha pensato a fare il suo film, cercando di evitare il più possibile i paletti posti dalle precedenti pellicole dell’universo di ambientazione. Si è preso con molto coraggio la responsabilità di scontentare una buona fetta di fan, quelli che si aspettavano ben più dei vaghi ed astratti richiami alla continuity. Le risposte inseguite dal pubblico arrivano col contagocce: il protagonista è Logan, solo Logan, e Mangold lo mette subito in chiaro.
La violenza è molto presente e gli arti mozzati abbondano: la produzione ha deciso di cedere alle pressioni di Jackman, che è arrivato a tagliarsi lo stipendio pur di ottenere il rating R, cioè il divieto ai minori. Grazie al lavoro fatto da Mangold, ci si trova davanti ad una violenza che non risulta mai fuori posto e non appare mai fine a se stessa, ed è priva di esagerazioni inserite per il gusto del gore come quelle viste in Deadpool: altro mutante canadese in mano alla Fox e primo film del mondo X-Men che, per esigenze di fedeltà di trasposizione, ha ottenuto il rating R.
Quasi tutto fila nel modo giusto, anche se è lontano dall’essere un film perfetto. Tralasciando qualche svolta ambigua nella trama (è pur sempre un film di super-tizi che si menano), la durata è veramente esagerata in rapporto al tipo di storia raccontata, che fondamentalmente è molto semplice.
È un film d’azione molto maturo, ma non per il sangue ed i turpiloqui (e le tette, ci sono delle tette), bensì perché rappresenta senza timore ed in modo autentico le emozioni, senza tentare di lasciarle da parte. La disperazione, il dolore e la sofferenza riescono a creare un’empatia rara col protagonista, mai mostrato così fragile ed emotivamente distante dalla sua controparte cartacea.
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