Ben trovati cari fuchi dell’alveare, come va la schiavitù consumista?
Nella Prima Puntata di questa saga ho spiegato il più linearmente possibile cosa si intende col termine “terre rare” e ho reso esplicito il ruolo dominante dell‘industria cinese nel corso degli anni nell’estrazione, lavorazione e raffinazione di questi 17 elementi chimici . Senza inutili giri di parole posso sintetizzare dicendo che la Cina tiene letteralmente per le palle l’America – sua antagonista economica- e le più grandi industrie del settore. Ma se poi la Cina decide di giocare con loro e far aumentare i prezzi riducendone l’esportazione, allora sono ugiuelli senza zuccheri. L’America e non solo decidono di rimettersi in proprio, visto che dipendere dagli occhi a mandorle non è più nemmeno economicamente conveniente, oltre che strategicamente pericoloso.
Dal ruolo militare-strategico, passando per i device elettronici di ultima e ultimissima generazione, fino ad arrivare agli impianti di produzione di energia rinnovabile come le pale eoliche, il territorio asiatico, però, è inesorabilmente coinvolto. Se infatti è vero che i 17 minerali sono sparsi un po’ ovunque sulla crosta terrestre, è altrettanto innegabile che più a “sud” vai, e più le leggi sono permissive (e qualora non lo fossero ci sono funzionari e commissioni corruttibili), il che significa che la tutela ambientale con i dovuti costi può passare in secondo piano nel caso in cui ostacoli un business che preme (come quello in cui l’occidente è preoccupato di rimanere senza risorse per la produzioni della sua tecnologia) che porta con sè enormi introiti e spalanca la porta di un settore produttivo a paesi sensibili alla crescita come quelli in via di sviluppo.
È questo per esempio il caso della Malesia, recentemente nell’occhio del ciclone per l’apertura di un nuovo impianto di raffinazione dei nostri pluri citati e controversi minerali ad opera della Lynas dove si parla di un investimento di quasi 2 miliardi di dollari, l’1% dell’intero reddito interno malese. La Lynas, che conosce le restrittive norme ambientali australiane, decide di estrarre il materiale nella sua terra di origine ma di lavorarlo dove le leggi non vengono applicate, ad esempio a Kuantan. E non ci sarebbe nessuna complicazione, se generalmente un impianto del genere, posizionato in terra asiatica, non significasse morte e distruzione non indifferenti tonnellate di scorie radioattive mal gestite, leucemie e malattia in età pre-natale -come cecità e ritardi mentali- e contaminazione acquifera accompagnate da non poche e giustificate proteste delle comunità locali.
Valgono quindi a poco le dichiarazioni di autocertificazione dell’azienda, visto il disastro ambientale provocato 30 anni fa a Bukit Merah dalla Mitsubishi Chemical. Era il 1985 quando alcuni attivisti riuscirono con un geiger a rilevare che il livello di radioattività era 88 volte superiore a quello consentito dalle normative internazionali. Gli abitanti della zona fecero quindi causa alla fabbrica, che chiuse. Il governo però due anni dopo diede il permesso di riaprire nonostante la decontaminazione non fosse completata. Le proteste continuarono e nel 1992 quando i cittadini riottennero l’ingiunzione di chiusura dell’impianto la Asian Rare Earth (controllata dalla Mitsubishi Chemical) decide di chiudere l’impianto per sempre, senza smantellarlo e lasciandovi dentro oltre 15 milioni di litri di idrossido di torio radioattivo, stoccati in 80k barili scoperti da un giornalista nel 2010. Nel corso degli anni erano emersi 8 casi di leucemie (accompagnati da 7 decessi infantili), numerosi casi di irritazioni cutanee “inspiegabili” e vari casi di nascite di bambini mentalmente disabili e ciechi causate dalla dispersione nell’aria di torio. La Mistubishi Chemical infatti aveva un particolare modo di gestire i rifiuti pericolosi e radioattivi: li riciclava nell’ambiente spacciandoli come fertilizzanti o come calce. E ovviamente la popolazione locale li usava come tali.
Anche se i metodi di raffinazione sono molto migliorati da allora – si utilizza metà dell’acqua rispetto ai vecchi impianti compensati però da un consumo 7 volte superiore di elettricità- recentemente sono trapelate alcune informazioni sulle operatività della Lynas e le denunce di alcuni ingegneri minerari che mettono in guardia contro i rischi di queste lavorazioni quando sono fatte con l’intento di risparmiare: acciai normali invece di acciai resistenti alla corrosione, cementi normali per lo stoccaggio di materiali che richiederebbero cementi a base di polimeri per ottimizzarne l’isolamento. La scelta della zona dove costruire e le modalità sono anche messe in dubbio: la vicinanza ad una foresta costiera di mangrovie e lungo un fiume; l’inadeguatezza del sistema delle fondamenta per prevenire la risalita dell’acqua, tutto fatto per risparmiare sui costi. Per quanto riguarda lo stoccaggio, che ovviamente non avviene in Australia ma rimane nei paesi in cui i minerali vengono lavorati, il torio e gli altri rifiuti solidi vengono mescolati a cemento e isolati in un pozzo di 400 ettari. Peccato che questo è autorizzato per 30 anni, poi ne dovranno costruire un altro e un altro ancora, visto che l’emivita del torio è “solo” di 14 miliardi di anni, e quello del suo fratello minore, l’uranio, di 4 miliardi e mezzo.
E tutto questo, purtroppo, ve lo dico collegata dal mio laptop, hotspottando dal mio smarthphone, illuminata da led alimentati parzialmente da un impianto eolico. Se non si può fare a meno della tecnologia e tornare a vivere come uomini delle caverne, quantomeno cerchiamo di incentivare e controllare il riutilizzo di questi materiali tramite interessamento collettivo, e mettiamoci in testa che riparare è meglio di sostituire.
C’est la vie.
Derpina.
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