Sono iniziate le operazioni per strappare Mosul all’ISIS. Ad aprire le danze nella giornata di giovedì è stata l’aviazione francese, con i caccia multiruolo Rafale che si sono alzati in volo dalla portaerei Charles de Gaulle, alla fonda nel Mar Mediterraneo orientale da settembre. L’offensiva su Mosul verrà supportata anche da altri membri della coalizione: gli Stati Uniti stanno trasferendo in loco altri 600 soldati, per la maggior parte con compiti di consulenza, elaborazione di materiale d’intelligence e di supporto logistico per aiutare l’esercito iracheno nella riconquista della città.
Mosul, situata nei pressi dell’antica Ninive, è una città di fondamentale importanza per diverse ragioni: oltre ad essere la capitale irachena dello Stato Islamico è città santa dell’Islam, sede di diverse moschee storiche e luoghi sacri (parte dei quali sono stati danneggiati durante il dominio del Califfato, come la moschea di Giona del XIII secolo). Oltre al lato culturale, Mosul riveste un’elevata importanza economica, essendovi costruita un’importante diga che, oltre a generare energia idroelettrica nell’Iraq pre-Stato Islamico, forniva anche un importante serbatoio per l’irrigazione delle attività agricole del governatorato di Nineve. Tale infrastruttura, restaurata tra il 2006 e il 2010 da un’azienda italiana (il Gruppo Trevi), ha costituito anche un’importante “arma di autodistruzione di massa” nelle mani dello Stato Islamico: con un bacino di oltre 11.100 milioni di metri cubi d’acqua un suo eventuale crollo avrebbe messo a repentaglio un numero di vite umane compreso tra le 500.000 (secondo il genio dell’esercito statunitense) e il milione (secondo il prof. Nadir Al Ansari che contribuì alla progettazione dell’opera). Ora il pericolo non è totalmente scongiurato, ma la diga è tornata in mani “amiche”: quelle dei combattenti curdi supportati da un centinaio di bersaglieri italiani.
La battaglia di Mosul si preannuncia molto difficile: i bombardamenti di Francia, Regno Unito e Stati Uniti sono effettuati in modo mirato valutando le perdite civili e preservando le infrastrutture abitative della città. Considerando anche la pianta della città, in cui il centro storico è composto da un labirinto di vicoli, si prospetta un’azione difficile in cui i reparti coinvolti subiranno delle perdite. Secondo fonti curde gli estremisti avrebbero costruito un network di tunnel sotterranei da usare via di fuga e come nascondiglio. L’Isis, inoltre, cercherà di rallentare l’avanzata dell’esercito iracheno per facilitare l’evacuazione dei foreign fighters, destinati ad esportare la jihad nei propri paesi di provenienza come virus in fuga da una cellula morente. D’altro canto, fonti da più parti riferiscono di una città fantasma, in cui la popolazione non esce di casa, gli approvvigionamenti di cibo e acqua sono ai minimi per la sopravvivenza e i guerriglieri dello Stato Islamico girano di casa in casa facendo i conti con la resistenza interna mentre preparano l’esecuzione di alcuni comandanti che si sono rifiutati di andare a combattere in prima linea.
Fare previsioni sulle perdite civili e militari non è per niente facile, ma è possibile aspettarsi una crisi umanitaria dovuta all’interruzione totale degli approvvigionamenti alla città e la fuga di una parte degli abitanti di fronte ai combattimenti e dell’eventuale distruzione di alcune abitazioni. In aggiunta, timori aggiuntivi sorgono pensando al minuto successivo alla fuga dell’ultimo combattente dell’ISIS in città: sui social circolano già minacce di morte ai collaborazionisti del regime e si teme per eventuali episodi di giustizia sommaria.
Ragionevolmente è possibile prevedere che, dopo la presa di Mosul, lo Stato Islamico cesserà di esistere in Iraq e Baghdad riacquisirà la sovranità sulla totalità del proprio territorio: un possibile elemento interessante può provenire proprio dal Kurdistan e dai Peshmerga, considerando che questi per combattere l’ISIS si sono spinti molto più a sud del confine amministrativo della regione del Kurdistan e alcuni dei capi militari già paventano la possibilità di modificare i confini della regione attuale (che gode di una certa quota di autonomia amministrativa). Certamente Baghdad dovrà modificare il proprio modo di porsi e di dialogo con le comunità nel nord del paese, siano queste i cittadini di Mosul o i curdi.
Guardando più in là della presa di Mosul, quindi, vediamo uno Stato Islamico rintanato nei pressi della sola Raqqa, che ormai isolata e con ogni probabilità senza rinforzi e approvvigionamenti non sarà in grado di resistere a lungo: la città cadrà e la guerra giungerà al termine.
In realtà no: in Siria c’è una guerra civile che va avanti da 5 anni e che, fino a due settimane fa, sembrava pronta ad una tregua. Quest’ultima, tuttavia, è durata meno di quindici giorni, con la violazione dei termini della tregua sia da parte del governo centrale che dei ribelli siriani, i quali si sono rifiutati di isolare la propria componente fondamentalista islamica.
Pensare che, una volta eliminato lo Stato Islamico, le due fazioni cesseranno immediatamente di combattere è quantomeno utopistico. Dopo le ripetute violazioni della tregua non solo si è ripreso a combattere, ma si è generato un considerevole deficit di fiducia tra le due parti, rendendo il proseguo dei colloqui di pace molto più difficile a meno che ai due contendenti non si sostituiscano Russia e Stati Uniti oppure non venga operato un cambio degli interlocutori che si presenteranno di fronte al mediatore ONU, lo svedese naturalizzato italiano Staffan de Mistura.
Qualora questo canale di dialogo venga riaperto e considerando gli elementi in gioco, la soluzione più probabile sembrerebbe essere quella della secessione, con Assad saldo al suo posto a Damasco e un governo composto dalle varie forze ribelli ad Aleppo o in un’altra città sotto il controllo dei ribelli. Questo pare essere lo scenario maggiormente probabile considerando tutte le variabili in gioco: l’opposizione del Cremlino all’idea di rimuovere Assad che è funzionale a Mosca in quanto protettore delle due basi russe sul mediterraneo di Laodicea e Tartus, la fermezza di Ankara (che ora pesa di più nei colloqui dopo aver oltrepassato il confine con la Siria) nel volerlo eliminare dallo scacchiere in quanto ostacolo alla dominazione turca dell’area e l’ostilità aperta della Casa Bianca (che si irrigidirà ulteriormente se i democratici dovessero vincere le elezioni di novembre).
Per quanto concerne la situazione sul terreno, questa vede in vantaggio il governo di Damasco, che ha beneficiato della tregua senza perdere posizioni (nel frattempo opportunamente occupate da soldati russi) e senza lasciar passare rifornimenti verso la città di Aleppo. Al contrario, Assad ne ha approfittato per far respirare le truppe mentre nella città assediata i rifornimenti continuavano a non arrivare. Con il conflitto sono ripresi i bombardamenti che hanno avuto come obiettivo l’ospedale maggiore di Aleppo nella giornata di venerdì: il bilancio supera i 20 morti.
Concludendo, vi è un altro elemento da considerare che ci riguarda da vicino: la fine del Califfato (inteso come l’entità che esercita sovranità sui territori della Grande Siria) non è la fine dell’Isis. Molti dei foreign fighters scapperanno dal Medio Oriente per fare ritorno nei propri paesi d’origine, con un certo rischio legato al reclutamento e all’allargamento della rete terroristica. Il problema concerne in primo luogo Francia e Belgio, ma anche Regno Unito e Italia e, soprattutto, la Russia. Quest’ultima, suo malgrado, ha donato circa 1.800 combattenti allo Stato Islamico: si tratta di effettivi per la maggior parte provenienti dalla Cecenia e che in qualche caso hanno partecipato alle guerre russo-cecene (da una parte o dall’altra). Mentre l’Europa occidentale si sta più o meno convincendo che la cooperazione in materia di antiterrorismo gioca un ruolo fortemente favorevole, per la Russia il discorso è diverso. Il ritorno a casa dei foreign fighters potrebbe prendere in contropiede l’FSB (il servizio di controspionaggio di Mosca) e spargere i germi di una rivolta e della potenziale terza guerra russo cecena.
Studente studioso delle Relazioni Internazionali, particolarmente interessato a temi vicini alla Sicurezza (Inter)Nazionale. Orologiaio che cerca di capire il funzionamento di un sistema composto da 7 miliardi di ingranaggi.
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11 Dicembre 2016
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