<<Per me espiare
non è soffrire:
è rïamare
l’amor che fu!>>
Così rispose alla sentenza dei giudici Stefano Ala, un montanaro diciassettenne condannato a nove anni di carcere per aver ucciso la donna che amava e il rispettivo promesso. Ma chi era prima dell’efferato gesto?
Ala era un poeta, e scriveva per Caterina Viola versi dal sapore trecentesco: la corteggiava così, “per rima”, senza mai esser capace di amarla da vicino (<<Al mio cuore basta sapersi corrisposto dal vostro, anche a distanza>>). L’amore fatto di versi di Stefano non dové bastare alla giovane Caterina, che infatti gli preferì un “baldanzoso reduce di Francia”; così al ballo pubblico la fanciulla e il suo pretendente furono uccisi a colpi di rivoltella.
A raccontare il delitto “passionale” (come oggi i cronisti amerebbero pronunciare) è uno dei poeti più vividi del primo Novecento, Guido Gozzano, in una prosa giornalistica del 1911 intitolata “Intossicazione”.
Egli attribuisce la colpa del volgarissimo delitto alle letture dell’Ala: Balzac, Chateaubriand, Cavallotti, Stecchetti… In gozzaniane parole, il giovane omicida fu vittima di “Monna Letteratura”.
Secondo il poeta torinese <<la letteratura foggia la vita>>, e tutti – esclusi i “cittadini evoluti e raffinati” – sono vittime di un mimetismo che li porta a vivere prendendo a modello i personaggi dei libri prediletti. Esiste, infatti, un sottile confine tra il meccanismo dell’immedesimazione e quello che, invece, confonde vita e letteratura, realtà e sogno, e che qualcuno, di flaubertiana memoria, potrebbe arrischiare a chiamare “bovarismo”.
Nel classico francese, l’adolescente Emma Bovary, desiderando un’evasione dall’ambiente conventuale, cominciò a nutrirsi di romanzi di Walter Scott, a venerare Maria Stuarda, la sfortuna di donne come Eloisa, componendo nel suo immaginario un mondo fatto di <<amore, di amanti e di innamorate, […], cavalli sfiancati in tutte le pagine, foreste tenebrose, cuori in tormento, giuramenti, singhiozzi, lacrime e baci>>. Questo mondo letterario non sparì con la realizzazione delle aspirazioni di una qualsiasi donna della sua condizione sociale, e quindi con il matrimonio e una vita relegata al focolare domestico; Emma, infatti, ambiva alla passione, alla mondanità, ai tormenti d’amore di cui aveva letto in convento: la sua infedeltà non fu che un’eterna fuga da ciò che non voleva essere, ma che la portò paradossalmente alla perdita di se stessa.
<<Madame Bovary, c’est moi!>>, così pare aver pronunciato Gustave Flaubert a Mlle Amélie Bosquet, e a me par di scorgere delle sottili affinità tra lo Stefano Ala che pensa di espiare la propria colpa riamando Caterina Viola, e l’ammissione audace di Flaubert, che verosimilmente traspose in Emma Bovary se stesso, e sotto accusa nel 1857 andò proprio lui: Gustave-Emma.
E non è forse vittima di questo assurdo meccanismo di trasfigurazione lo stesso Guido Gozzano, che, attraverso la vicenda di Ala non parla che della sua tabe letteraria? Anzi, Gozzano è il più consapevole di tutti: abilissimo nell’uso dell’ironia, costruisce dei “guidogozzano” che parlano e si muovono in tempi non vissuti, nel passato nel futuro, in vite che Guido non può vivere ma che finisce per vivere nell’unico luogo possibile: la letteratura. E per lui tutto ciò non era solamente un gioco col Tempo, bensì una necessità: chi è almeno in parte avvezzo alle vicende biografiche di questo attualissimo poeta sa, infatti, che Gozzano era malato di tubercolosi, che sarebbe morto giovane, che non avrebbe potuto vivere come desiderava la propria vita, che non aveva tempo per viverla; fu per questo che Guido decise di non-vivere e, quindi, di scrivere.
Creò un alter ego, Totò Merùmeni, grossolana traduzione del greco “Heautontimoroumenos” (“punitore di se stesso”), titolo di una commedia di Terenzio; vagheggiò una vita tranquilla al margine della società con la Signorina Felicita, sottraendosi sempre all’amore e sempre ricercandolo: <<aspetta il cuore intatto l’amore che non giunge>> (da “Il responso”).
Qualcuno direbbe che Gozzano non è altro che il prodotto di una generazione di inetti, popolata dai figli di Svevo, di Moravia, ma io sento di dire che in questo caso, nel preciso caso di Guido Gozzano, il Novecento gioca un ruolo secondario. Che siano l’indole, la malattia, è alla Letteratura che Guido sceglie di consacrare se stesso, fuggendo sì – dall’amore e dalla vita – ma senza smarrirsi, ritrovandosi sempre, in ogni verso, più vivo di quello precedente.
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