Novembre è stato un mese denso di eventi e noi abbiamo cercato di accompagnarvi al meglio: da concerti jazz di tutto rispetto, passando per le elezioni americane, vi siamo stati vicino durante delle perdite importantissime e abbiamo seguito con voi l’hype di quel nuovo giochino Pokémon che tutti aspettavamo. Inoltre, abbiamo detto la nostra sui Joy Division e quei bagarini di cui tanto si è parlato, vi abbiamo mostrato degli artwork bellissimi e raccontato storie di compositori, contraddizioni e sintetizzatori.
Il Fricatismo, a voler seguire la definizione che lo stesso Fricat (già membro degli Apes on Tapes, per gli appassionati) ne dà, è un invito alla bastardizzazione fertile e gioiosa. Bastardizzazione che, come racconta Capibara, autore della copertina, si nota sin dalla copertina. L’idea di raffigurare la Venere di Milo (celebre statua greca, in marmo) con il volto di una maschera mediorientale in calcare vecchia di 9000 anni non è altro che un gioco di significanti che anticipa l’esperienza, quasi sinestetica, che il disco si rivela essere. Tra orchestre, marce, jungle e hip hop, Fricat imbastardisce, gioca, a tratti quasi profetizza e riflette minaccioso ed incombente sui tempi moderni. Per qualcuno siamo nell’epoca della “guerra non lineare”, una complessa tecnica di manipolazione mediatica che mira a creare un sistema così complesso e confuso a cui è impossibile opporsi proprio perché del tutto indefinibile. Allo stesso modo è indefinibile che rimane il Fricatismo, vero ed autentico figlio di quest’epoca: non lineare, complesso, senza paura di risultare a tratti grottesco, a tratti solenne. (Raffaele Lauretti)
Cresciuto tra le scene jungle e rap, Fred Warmsley pubblica il suo primo full-lenght con lo pseudonimo Dedekind Cut. Con le sue atmosfere complesse e variegate “$uccessor” naviga in acque ambient e drone, ma lo fa con una lucidità e un dinamismo sonoro che collocano questo lavoro ben al di fuori dei tipici canoni della musica ambientale; tappeti eterei e oscuri vengono lacerati improvvisamente da incursioni analogiche vivissime (come ad esempio avviene in “Instinct”). Durante l’ascolto non è semplice comprendere la rotta che questa musica sta seguendo: Warmsley rimescola continuamente le carte, come si evince anche dalla singolare copertina, tenendosi sempre un asso ben nascosto sotto la manica. L’unico elemento che fornisce una sorta di continuità sonora all’opera è l’oscurità: “$uccessor” sembra provenire da una caverna, una zona d’ombra in cui gli improvvisi guizzi di luce, proprio per contrasto, risaltano fiammeggianti nell’ambiente circostante. L’esordio del progetto Dedekind Cut è un disco mai banale, intelligente, che incanta dal primo minuto ma che rivela tutte le sue numerose sfaccettature solamente dopo alcuni ascolti. (Simone Barondi)
A trent’anni dalla loro formazione, i Lambchop continuano a stupire con Flotus, dodicesimo album in studio della band guidata da Kurt Wagner. Flotus è l’acronimo di For Love Often Turns Us Still ed è il primo disco realizzato dopo la morte del bassista Marc Trovillion, avvenuta nel 2013. I Lambchop sono una band che nasce dal country ma che non ha mai avuto paura di rischiare, uscendo fuori dai canoni tradizionali per proporre sempre qualcosa di nuovo e allo stesso tempo coerente con il loro stile.
In questo caso sono molteplici gli elementi di novità: Flotus segue la scia di altri dischi usciti quest’anno, come The Colour in Anything di James Blake e 22, A Million di Bon Iver, in cui le sonorità acustiche lasciano spazio alla sperimentazione e all’elettronica. In questo caso, a colpire immediatamente l’ascoltatore è la voce di Wagner modificata attraverso l’utilizzo del vocoder, uno strumento in grado di codificare un segnale audio, dandole un tocco quasi robotico e distorcendone il caratteristico tono baritonale.
Flotus si apre con In Care of 8675309 (un richiamo a 867-5309/Jenny di Tommy Tutone), lunga e delicata traccia che affronta il tema della morte e della perdita dall’arrangiamento essenziale, ancora legato al repertorio più classico della band, e si chiude con The Hustle, una suite dalla durata di 18 minuti e dall’utilizzo massiccio di strumenti elettronici. I due brani sembrano essere le estremità di un ponte: da una parte vi è lo stile più tradizionale e acustico, con la voce di Wagner quasi irriconoscibile, dall’altra sembra scomparire ogni componente più abituale della musica dei Lambchop per lasciar spazio all’elettronica ma con la voce di Wagner ormai ripulita di ogni effetto. In mezzo, ogni brano aiuta l’ascoltatore nel passaggio da un genere all’altro, dal più accogliente alternative country ad una sorta di simil kraut rock futuristico.
Flotus sembra dettare un netto cambio di rotta da parte della band di Nashville, lasciando però un interrogativo: riusciranno a proseguire verso questa nuova direzione o cercheranno di ritornare sui loro passi? (Vittorio Comand)
I fan dei Metallica sono, per certi versi, simili ai fan di Star Wars. Il fandom da sempre mette glorifica tutti gli album del gruppo americano fino al Black Album del 1991 mentre critica fortemente e cerca di dimenticare tutti i dischi da loro fatti negli ultimi 20 anni, un rapporto simile a quello con la trilogia prequel di Star Wars. Un atteggiamento ragionevole visto che i Metallica hanno fatto molti passi falsi come l’indifendibile St. Anger o il deludente Lulu, album fatto insieme a Lou Reed, in mezzo a molti album modesti e a un musical. Così dopo otto anni dal modesto Death Magnetic ed essere diventati il sinonimo di venduti per il metallaro medio, i Metallica fanno uscire questo Hardwired… To Self-Destruct, un album già pronto per essere odiato dai nostalgici. Invece, un po’ come Il risveglio della forza per Star Wars, sta piacendo a molti e sta facendo capire che James Hetfield e compagnia hanno ancora molto da dire.
L’album si colloca a metà alla produzione più trash metal degli anni ’80 e alla produzione più mainstream e hard rock del già citato Black Album, riuscendo ad arrivare al compromesso perfetto tra innovazione e tradizione.
Il pregio maggiore dell’album è l’alchimia quasi perfetta tra i vari membri del gruppo: niente passa in secondo piano. Ottime la voce di Hetfield e le chitarre di Kirk Hammet che suonano come rinnovate, mentre è apprezzabile la batteria di Lars Ulrich, considerato da molti fan l’anello debole della formazione; dona un buon tiro ai brani e fa il suo lavoro, al contrario della onnipresente batteria con il rullante del pessimo St. Anger.
Molte delle canzoni di questo disco hanno le carte in regola per diventare dei nuovi classici della band, come la potente e pezzo migliore di tutto l’album Atlas, Rise!, Moth Into Flame, Hardwired, Here Comes Revenge e Spit Out The Bone. Non è un album perfetto, a causa di alcuni filler, ma rimane un ritorno che non ha deluso e che si è fatto perdonare molti dei passi falsi della loro carriera, con questo mix perfetto di novità e stile. (Gianni Giovannelli)
Disco dell’anno o cagata colossale? Forse entrambi. Già prima dell’uscita, Lesbianitj (Bomba Dischi, 2016) di Pop_X si porta dietro una dose di hype, critiche, flame ed elogi non da poco. Il progetto di Davide Panizza, dal sottobosco del web, ha saputo far incuriosire, nel bene o nel male, quasi tutti gli amanti dell’indie italico: difficile non restare perplessi di fronte a canzoni costruite su testi volgari, esagerati o semplicemente nonsense infarciti di autotune, su delle basi asciutte e scontate, stile preset demo-mode di qualche economica tastiera per principianti; ancor più inquietante e sorprendente ritrovarsi a canticchiare le stesse dopo il primo ascolto (garantito: provateci con Secchio o Frocidellanike), a testimonianza del forte gusto pop e della geniale immediatezza delle canzoni proposte.
In undici orecchiabilissime tracce con l’onnipresente bollino Explicit, tra rigurgiti eurodance, assoli di sassofoni sintetizzati (Mister V), prese per il culo varie ed eventuali (“Mi scatti una foto e non capisco il perché, non è che per caso vuoi una parte di me?”), necessità di parlare di sesso e di amore e l’onnipresente parola frocio, si consuma l’epopea di Panizza, genio disagiato, spontaneo e criptico allo stesso tempo o semplicemente, solo un (frocio) perso che sa bene come prendere poco sul serio persino se stesso. Stupisce quasi l’indole dissacrante di Lesbianitj, quel voler, a suon di “un amore al caffè” (Madamadorè) e “lunghi siluri come enormi manganelli” (Sanatrix), ad ogni costo uscire dal contesto del cantautorato indie melenso e sintetico, nel quale, però, lo stesso lavoro affonda le basi. Un album più furbo che geniale, ma comunque perfettamente coerente con se stesso. E allora lunga vita alla next big thing dell’indie italiano, lunga vita a Pop_X… Almeno fintanto che qualcun altro non decida di emularne le disagiate gesta. (Luigi Buono)
16 Maggio 2014
7 Giugno 2012
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