Nell’approcciarsi a un libro come questo, ennesimo capolavoro di un autore prolifico e geniale quale Michael Ende, le difficoltà sono due. La prima riguarda il confronto con le altre sue creazioni, tra cui vanno ricordate per lo meno La storia infinita e Momo, mentre la seconda è strettamente legata alla struttura stessa dell’opera, che consiste in una raccolta di racconti – scelta difficile e spesso poco popolare – in cui la disposizione delle singole storie si affianca al contenuto, e diviene compartecipe del messaggio da veicolare. Si aggiunga, va da sé, che la versione italiana passa dal filtro della traduzione, in questo caso di Alessandro Califano, di cui in realtà non ci si può lamentare: fluida come deve essere, ma insieme ricca ed esaustiva in quanto al lessico.
Pubblicato in Germania nel 1992, Das Gefängnis der Freiheit appartiene all’ultima fase di Ende – che morirà tre anni dopo – e ne rappresenta il mirabile traguardo creativo, per nulla inferiore alle sue opere più conosciute. Il libro comprende otto racconti, variabili per entità e tematiche ma accomunati dall’inconfondibile fantasia già ampiamente dimostrata in precedenza. Considerata la struttura dell’opera, un paragone più preciso può essere fatto con l’altra, precedente raccolta di Ende, Lo specchio nello specchio (1983). In quest’ultima, i racconti sono più brevi e numerosi, nonché tendenzialmente più cupi e angosciosi, mentre – nella Prigione della libertà – le atmosfere da incubo sono, almeno all’apparenza, meno incombenti, e in diversi racconti si fa strada addirittura una vena ironica, quando non apertamente comica. Il minor numero di racconti, d’altra parte, consente di poter – seppure brevemente – trattare di tutti quanti essi, nel tentativo di dar conto dei più importanti tratti e tematiche del libro.
Nel racconto incipitario – Il traguardo di un lungo viaggio – si seguono le orme del cinico Cyril Abercomby, anaffettivo lord vittoriano, che cerca il suo scopo nel mondo con una dedizione folle e cocciuta. Il confine col romanzo breve è labile, ma la lunghezza non inficia la godibilità: numerosi sono i passaggi degni di nota, e il lungo racconto – che sfiora le sessanta pagine – comprende molti dei temi che saranno poi sviluppati nel corso del libro, quali l’ineluttabilità del destino contrapposta alla libertà di scelta, l’opposizione tra prigionia e libertà, e più in generale la dialettica tra realtà e illusione.
Nel secondo, Il corridoio di Borromeo Colmi – il cui sottotitolo Hommage à Jorge Luis Borges non fa che esplicitare definitivamente l’importanza dello scrittore argentino per la formazione di Ende – l’ambientazione romana fa da contorno a un pregevole resoconto scientifico e filosofico. La narrazione, ambientata nel presente, è tutta rivolta alla figura del medico-architetto-mago rinascimentale Colmi, e in particolare alla sua creazione, un corridoio a trompe-l’œil che nasconde un piccolo, grande mistero.
Il racconto successivo – La casa in periferia – si svolge invece in un sobborgo di Monaco, ed è segnalato come la Corrispondenza di un lettore. Al pari del precedente, anche questo affronta il tema dell’ambiguità del reale, e del sottile confine con l’illusione: uno scritto leggero e arguto, che ricorda in più di un’occasione lo stile di Buzzati, e le sue atmosfere sempre a cavallo tra vita quotidiana e fascino dell’ignoto.
Il quarto, Un po’ piccola, in effetti, è il più breve della raccolta, e come ambientazione torna a rivolgersi a Roma, per un omaggio – questa volta ancora più pervasivo e sentito, ma insieme garbatamente ironico – alla città in cui Ende aveva vissuto negli anni in cui lavorava su Momo. L’io narrante, alter ego dello stesso autore, si ritrova a vivere un’esilarante avventura in compagnia di una bizzarra famigliola romana, tra discussioni sul perpetuum mobile, poster di Branduardi e personaggi astrusi.
Segue Le catacombe di Mizraim, inquieta vicenda dal sapore orwelliano, che inizia come una classica distopia ma si rivela molto di più, tra critica della società umana e riflessione sul dualismo libertà-prigionia, con trasparenti rinvii che vanno dalla caverna platonica a Metropolis di Fritz Lang.
Il sesto racconto, Dagli appunti di Max Muto, il viandante del mondo del sogno, è un vero e proprio volo di fantasia, sotto forma di diario di viaggio, dove per la prima volta Ende si lascia andare, abbandonando completamente ogni legame col reale. Max vaga per un mondo letteralmente onirico, nel disperato tentativo di portare a termine una missione che va avanti da troppo tempo, al punto da perdersi nell’eternità. Di nuovo torna la ricerca di uno scopo, come per il Lord Abercomby del primo racconto, ma questa volta la risposta è ancora più inaspettata.
Il racconto che segue – e che dà il nome all’intera raccolta – è La prigione della libertà, il cui sottotitolo descrive come Il racconto della milleundecima notte. Questa volta, l’espediente narrativo consiste nelle parole rivolte dal mendicante cieco Insh’allah al Califfo, come lode all’Eterno. La vicenda narrata, metafisica e altamente simbolica, vede il mendicante rapito da un demone, e costretto a discutere su questioni quali l’unde malum e l’illusione del libero arbitrio.
L’ultimo, La leggenda di Indicavia, ricalca in parte il primo, in una sorta di Ringkomposition. Entrambi, infatti, ripercorrono l’intera vita dei loro protagonisti, dalla nascita all’epilogo, e affrontano il desiderio di trovare un posto nel mondo. Diversa è però l’ambientazione, qui quasi calviniana, e naturalmente anche le conclusioni tratte, che riassumono e coronano alla perfezione lo spirito della raccolta.
Si parla, in definitiva, di un libro di non facile classificazione, ma è innegabile che si tratti di un tassello imprescindibile non solo per chi ama Ende, ma anche per chiunque apprezzi questo particolare genere di letteratura. Anche di fronte a capolavori di ben altra fama, come la già citata Storia infinita, La prigione della libertà si conferma un piccolo gioiello in grado di reggere il confronto, e – in alcuni racconti – di affermarsi addirittura, per freschezza della scrittura e per l’inesauribile fantasia di un autore che forse non è ancora stato abbastanza apprezzato.
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