Il calcio e lo sport sono delle ottime cartine tornasole della società. Poche cose raccontano il presente e il passato di una comunità in maniera ugualmente precisa. Per raccontare la storia del Tigre Arthur Friedenreich, il primo millenario del gol, dobbiamo pensare al Brasile di inizio ‘900: un paese indipendente da qualche decennio, in cui la frattura sociale tra la borghesia bianca e il proletariato di colore è enorme.
E’ in questo contesto sociale che a Sao Paulo, il 18 luglio 1892, nasce Arthur Friedenreich, figlio di un commerciante tedesco e di una lavandaia di colore. Mulatto dai riccioli nerissimi e dalla pelle scura coi lineamenti e gli occhi dell’uomo del Nord Europa, cresce con la madre e conosce il calcio per le strade assieme ad altri bambini come lui, perché in quegli anni lo sport associativo è ancora un hobby da ricchi. Ma Arthur, non si rassegna a giocare solo con una camera d’aria rotta in compagnia degli amici: lotta, dimostra di avere un talento quasi sovrannaturale, e usa la furbizia per entrare nelle squadre di calcio dell’élite. Si liscia i capelli con la brillantina, e si schiarisce il viso con la crema di riso per confondersi coi bianchi, e con questo trucco, nel 1910, riesce ad entrare nelle fila dello Sport Club Germania, il club della comunità tedesca della capitale paulista. Il suo stile di gioco diventa immediatamente popolare: elegante, fantasioso, il dribbling saettante e la capacità di ballare sul pentagramma del pallone sono corredati da un fisico poderoso (specialmente per l’epoca: 1.75 m) e da una grande forza atletica. Friedenreich in quegli anni inventa il futebol brasiliano, l’interpretazione del calcio che prima scalda gli occhi e il cuore, e poi bada al risultato: come scrisse Eduardo Galeano nel suo “Splendori e miserie del gioco del calcio”, Friedenreich “portò nel solenne stadio dei bianchi l’irriverenza dei ragazzi color caffè.”.
Il 21 luglio 1914 Arthur è il centravanti della prima nazionale brasiliana (una selezione di grande talento che unisce per la prima volta i giocatori carioca e paulisti sotto la bandiera verdeoro) che scende in campo contro gli inglesi dell’Exeter City. I padroni di casa vincono con un secco 2-0, Arthur non segna ma propizia le reti di Oswaldo e Osman, ed esce malconcio dallo scontro con un terzino avversario: le cronache della giornata narrano che abbia perso due denti. Fried rende il calcio lo sport nazionale brasiliano, ma la sua storia diventa una leggenda immortale grazie a un’altra partita: 29 maggio 1919, allo stadio Laranjeiras di Rio de Janeiro Brasile e Uruguay giocano lo spareggio che assegna il Campeonato Sudamericano (che diventerà la Copa America che tutti conosciamo solo qualche anno dopo). Lo stallo tra i due team è totale, si sfocia nei supplementari. In un periodo in cui le regole internazionali non hanno ancora stabilito delle regole univoche e certe per decidere le partite in caso di pareggio, se ne giocano quattro: la partita più lunga della storia del calcio viene decisa da un suo gol al 122’.
Fried è all’apice della popolarità nel suo paese, è il primo idolo delle folle calciofile, ma la sorte in nazionale non gli sarà amica ancora per molto: durante la Coppa America del 1922, colui che fu l’eroe del torneo di tre anni prima viene escluso dalla formazione che giocherà la finale per dar spazio solo a giocatori bianchi, su indicazione del presidente Epitacio Pessoa. La sua rivincita sulla politica arriva dai campi di calcio europei, nel 1925, quando la Francia si innamora di lui e del suo gioco nella tournée del Paulistano: per i tifosi d’Oltralpe diventa il primo Roi du football, a memoria l’unico straniero a vantare il platonico titolo assegnato dagli appassionati dell’Hexagone. Fried gioca, balla, incanta e costruisce magie calcistiche per due decenni. E segna tanto, anzi tantissimo. In un’era in cui la statistica sportiva non era nemmeno arrivata alla sua fase preistorica, gli vengono attribuiti addirittura 1329 gol, contati dall’amico e compagno di squadra Mario de Andrade, incaricato dallo stesso Arthur. In verità, indagini storiche più precise (iniziate alla fine degli anni ‘60, dopo la sua morte e il millesimo gol di Pelé) sostengono che i suoi gol siano “solo” 1239, e che quel 1329 (che lascerebbe alla Perla Nera solo la medaglia d’argento) sia un errore di trascrizione.
Alla fine del terzo decennio del ‘900, i suoi anni avanzano ma lui non molla. Nel 1930 potrebbe far parte (a 38 anni) della spedizione brasiliana al primo Mondiale, da disputare in Uruguay, ma un bisticcio burocratico tra la federazione di Sao Paulo e quella di Rio de Janeiro porterà alla formazione di una nazionale composta esclusivamente da giocatori carioca, condannando Fried ad essere il primo immortale della Storia del calcio a non calcare mai i campi della Coppa del Mondo. Gioca fino al 1935 e appende le scarpe al chiodo a 43 anni, dopo una carriera interminabile, lunga ben ventisei anni. Nel secondo dopoguerra la nuova grandezza del calcio brasiliano ne offusca la stella e lo porta a invecchiare in solitudine. Muore il 6 settembre 1969, e le sue gesta ritrovano l’attenzione meritata nei media brasiliani solo grazie al confronto con le imprese di O Rei. Indiscutibilmente, però, Arthur ha cambiato la natura e l’essenza dello sport pallonaro in Brasile e in Sud America. Per chiudere conviene citare di nuovo Eduardo Galeano: “Da Friedenreich in avanti, il calcio brasiliano, quando è davvero brasiliano, non ha angoli retti, come non ne hanno le montagne di Rio, né gli edifici di Oscar Niemeyer”
29 anni, da Trieste, educatore, appassionato di sport (da spettatore), videogames, e altre cose, devo controllare la presentazione che ho scritto su Tinder.
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