Black Mirror è una serie antologica incentrata sullo sviluppo della tecnologia. Per dovere di cronaca, si parla di serie antologica per riferirsi a quegli show che vantano cast, trama e narrazione differenti per ogni episodio (come in questo caso) o per ogni stagione (come nel caso di American Horror Story, American Crime Story e simili). Black Mirror, in particolare, mette sotto la lente d’ingrandimento la dipendenza e l’ossessione che il progresso tecnologico stimola nella società moderna.
Per capire da dove viene questa serie, è meglio fare un passo indietro. Netflix, dopo essersi occupata della sua espansione mondiale come piattaforma di streaming e della messa in produzione delle sue personalissime serie televisive, ha iniziato a recuperare e produrre serie già esistenti ma avviate alla cancellazione (The Killing e Longmire, ad esempio), nonché a riesumare delle serie, da tempo terminate, dalle quali poteva sperare di trarre ancora qualcosa (si pensi a Gilmore Girls). Perfettamente al centro di queste categorie, è presente una sorta di limbo in cui vagano determinate serie, che non possono essere considerate in corso ma nemmeno cancellate. Ed è proprio da questo limbo che Netflix è andata a pescare Black Mirror, affidando all’ideatore Charlie Brooker una terza stagione, composta da dodici episodi, approdati giusto oggi – 21 ottobre – sulla piattaforma. Quello di Brooker, che è al contempo ideatore e sceneggiatore, è un nome certamente non nuovo nel mondo della televisione british: si tratta infatti dell’ideatore – nonché sceneggiatore – sia di Dead Set (2008), sia di How TV Ruined Your Life (2011).
È notevole come questi suoi precedenti lavori abbiano influenzato – in un certo qual senso – il lavoro fatto con Black Mirror, a partire dalle tematiche concernenti la sfiducia verso l’uomo, espresse in uno stile quasi hobbesiano come in Dead Set, fino alla scelta di evidenziare l’annullamento umano nei confronti della tecnologia. Viene spontaneo notare che Black Mirror non punta affatto alla demonizzazione della tecnologia, secondo lo scontato e insensato “si stava meglio quando si stava peggio”: la serie mira, piuttosto, a far recepire al proprio pubblico determinate e paradossali derive tecnologiche, quasi degli effetti collaterali del sistema.
Charlie Brooker spiegò la scelta del nome Black Mirror in questo modo: «If technology is a drug – and it does feel like a drug – then what, precisely, are the side effects? This area – between delight and discomfort – is where Black Mirror, my new drama series, is set. The ‘black mirror’ of the title is the one you’ll find on every wall, on every desk, in the palm of every hand: the cold, shiny screen of a TV, a monitor, a smartphone». Ma se con “black mirror” si può riconoscere lo schermo dei dispositivi che oggigiorno permeano la nostra vita, l’unione dei due termini può rappresentare benissimo la serie come una oscura riflessione della società, malata per quanto concerne l’utilizzo e lo sfruttamento della tecnologia verso campi che non brillano per importanza sociale (Fifteen Million Merits e White Bear).
Tutti gli episodi si basano su un gigantesco “What If?”, attorno al quale ruotano la tematica della tecnologia e quella del thriller distopico. Il tentativo è quello di fornire allo spettatore gli strumenti necessari per potersi fare una propria idea riguardo a particolari introduzioni avveniristiche, che sono trattate nel tema centrale di ogni episodio. La visione presentata è molto ben impacchettata da parte di sceneggiatori e regia, tanto che lo spettatore non potrà che provare un tetro senso di brivido nel seguire gli episodi, e nel realizzare quanto effettivamente tutto ciò abbia destabilizzato – e fatto crollare – quello che egli considerava normale. È indubbio, quindi, che ciò che Black Mirror insegue in modo spasmodico – e alla fine ottiene – è lo shock nello spettatore, e una sorta di sensazione di ripudio, o di assoggettamento, alla tecnologia. È difficile infatti, dopo aver fatto una maratona di questa serie TV, riuscire a relazionarsi come prima rispetto al mondo tecnologico. Questa annotazione, va precisato, non è da intendersi come una sorta di elogio alla serie – solo perché aiuta lo spettatore a divincolarsi dal legame che lo avvince al proprio smartphone o al proprio computer – bensì come un plauso alla regia e alla produzione, le quali, predisponendo ad arte sceneggiatura e fotografia, permeano le riprese di una tale angoscia che l’ignaro spettatore non può far altro che empatizzare con il protagonista.
La fotografia di Black Mirror aiuta, e non poco, nel trasmettere allo spettatore le sensazioni provate dal protagonista: il continuare a soffermarsi sul viso – e in particolar modo sugli occhi – facilita l’empatia. Inoltre, poiché non si tratta di una sequenza dinamica bensì di una scena pressoché statica, e dunque senza troppi cambi di campo, il suo perdurare accentua questo effetto. Episodi come The Entire History of You, Be Right Back e White Bear fanno di questa fotografia la loro arma aggiuntiva.
Black Mirror è lo strumento per mezzo del quale Charlie Brooker espone agli spettatori la sua personale sfiducia nei confronti dell’uomo e della società, cercando sottilmente di dimostrare che c’è qualcosa da scongiurare: la possibilità che la tecnologia prevalga sulle nostre vite. Se come filo rosso si indicasse il mero effetto negativo che la tecnologia potrebbe avere nelle nostre vite, tuttavia, si cadrebbe in un grave errore, perché un peso non indifferente è ricoperto anche dalle personalissime storie dei personaggi trasposti nei diversi episodi, nonché dal loro lato umano. The Waldo Moment e White Christmas sono solo due degli episodi che meglio evidenziano questo amalgamarsi del lato tecnologico e del lato umano all’interno della narrazione.
La terza stagione, come si è detto, sarà composta da dodici episodi, dei quali i primi sei sono appena stati messi a disposizione su Netflix. Per i rimanenti episodi, invece, occorrerà attendere il 2017. Nel frattempo, recuperare le due precedenti stagioni (composte da tre episodi ciascuna) e l’episodio speciale di Natale è un dovere, in quanto Black Mirror – tanto per la rappresentazione angosciante della narrazione, quanto per l’alto livello del cast di attori di cui è composto – rappresenta senz’altro una delle migliori serie TV di questo decennio.
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