Un sunto della generazione dorata del basket argentino.
Gli addii non contano.
Conta solo quello che c’è stato.
1972, 1988, 2004.
Tre anni apparentemente slegati fra loro, ma uniti da un filo conduttore abbastanza pesante per gli americani: rappresentano le uniche occasioni in cui la nazionale maschile di pallacanestro del paese a stelle e strisce non ha conseguito l’oro olimpico (escludendo il 1980 in cui gli USA boicottarono i giochi di Mosca).
Se nelle prime due sconfitte però non stupisce il ruolo del villain, quella Russia che per anni ha dimostrato di essere una delle più fiere antagoniste della rappresentativa americana alle Olimpiadi, è quella del 2004 a rappresentare un’eccezione all’interno di una storia sportiva fatta di ori ininterrotti e totale dominio del basket olimpico: infatti in quell’edizione il gradino più alto del podio fu conquistato dall’Argentina.
Acme
La caduta degli dei.
È nella semifinale che avviene l’incontro destinato a porre quella generazione di giocatori argentini nell’Olimpo della pallacanestro.
Da una parte gli USA proponevano una delle versioni meno riuscite del Dream Team, con Larry Brown come Head Coach, ed una serie di evidenti problemi strutturali: una squadra male assortita, con palesi problemi di leadership ed idee di gioco, nonostante un livello qualitativamente molto alto.
Dall’altra l’Argentina, con Ruben Magnano sul pino, presentava una squadra solita e rodata a dispetto delle incertezze iniziali (si qualificò solo terza nel girone eliminatorio) che aveva tra le sue fila la miglior espressione del basket argentino mai vista.
Non ci fu mai storia, con l’Albiceleste sempre in controllo e Ginobili e Montecchia ad azzannare la partita imprimendo un ritmo “latino” fatto di accelerazioni e una difesa capace di azzannare i “cojones”.
Lo shock fu enorme, i padri della palla a spicchi erano stati malamente brutalizzati e l’Argentina volava in finale (dove agevolmente vinse contro una delle più coinvolgenti nazionali Italiane degli ultimi anni), raggiungendo un traguardo che ha rappresentato e rappresenta tuttora l’apice di quel movimento cestistico.
Tutte le grandi cose hanno piccoli inizi
Vintage Oberto.
Il primo passo di questo splendido tango è mosso nel 1997, al mondiale under 22 tenutisi in Australia.
La selezione Argentina, guidata da un Fabricio Oberto stellare (che sarebbe poi approdato l’anno dopo all’Olympiacos) e da Lucas Victoriano, macina vittorie su vittorie qualificandosi prima nel girone, poi approdando alla semifinale con i padroni di casa dopo aver annichilito la Lituania.
Purtroppo i loro sogni s’infrangono proprio qui, complice un tiro da 3 allo scadere di Trahair: il risultato sarà solo un quarto posto.
Il nucleo centrale della generazione è però già presente con Ginobili, Oberto e Luis Scola, futuro capitano e simbolo della stessa (qui ancora prospetto di lusso e con soli 24 minuti giocati).
Work in progress
Sempre una atmosfera pacata per i derby sudamericani.
Dal 1997 al 2001 la nazionale argentina attraversa grossi cambiamenti: l’esplosione di alcuni dei giocatori già citati, l’aggiunta di altri che ne sarebbero poi divenuti parte integrante (Andrès Nocioni e Hugo Sconochini su tutti) e il cambio di allenatore con l’arrivo di Ruben Magnano consolidano una già ottima base di partenza.
La Generazione Dorata inizia quindi il suo cammino verso la leggenda: prima con la vittoria del Campionato Sudamericano a Valdivia e poi con quella al premondiale di Neuquèn dove, in una finale conclusasi all’overtime, batte il Brasile qualificandosi per i mondiali di Indianapolis 2002.
MVP della manifestazione fu Manu Ginobili, fresco vincitore dell’Eurolega e del premio di MVP delle finali con la Virtus Bologna, a testimonianza della continua crescita del gruppo argentino.
L’umiltà precede la gloria
Quella che si presenta a Indianapolis è quindi una squadra solida, talentuosa e con un’unità a livello di gruppo pressoché inattaccabile che rende il cammino verso la finale agevole e privo di difficoltà; l’Argentina si leva anche lo sfizio di battere i padroni di casa degli Stati Uniti con una selezione composta interamente da giocatori NBA (primi a riuscirci in 14 anni) nel girone di accesso ai quarti.
Superate Germania e Brasile, rispettivamente in semifinale e ai quarti, è tempo di affrontare la Jugoslavia di Vlade Divac, Dejan Bodiroga e Peja Stojakovic.
La partita è semplicemente spacca cuore per l’Argentina, priva di Ginobili per un infortunio alla caviglia, che dilapida un vantaggio di 5 punti all’inizio del terzo quarto portando la partita all’overtime, complice un dubbio uso del fischietto da parte dell’arbitro negli ultimi minuti.
Qui l’esperienza e il killer istinct Jugoslavo hanno la meglio e l’Argentina deve accontentarsi dell’argento.
Ma l’arte di vincere la si impara dalle sconfitte; soltanto due anni dopo infatti alle Olimpiadi del 2004 l’albiceleste vincerà l’oro, consacrandosi.
Vincere richiede talento, ripetersi richiede carattere
Kobe e soci “matano” l’Argentina.
Si arriva quindi al post 2004.
I più forti giocatori di quella generazione hanno preso o hanno già preso la strada della NBA (Oberto, Ginobili, Nocioni, Scola), da protagonisti o gregari, e la loro nazionale è la più vincente delle sudamericana che si sia mai vista da molto tempo; il prossimo passo è dunque cementare questa gloria, cavalcare quest’onda biancoazzurra fino a toccare nuovamente il cielo.
Quale migliore occasione quindi di ripetersi su un palcoscenico mondiale dunque se non le Olimpiadi di Pechino del 2008?
Dopo aver vinto in quello stesso anno il Diamond Ball FIBA, torneo ormai soppresso, l’Argentina si presenta carica di aspettative, con giocatori all’apice della maturità e pronti ad uno storico bis.
Nonostante uno scricchiolio iniziale contro la Lituania, la cavalcata verso l’eliminazione diretta procede senza intoppi; ai quarti la Grecia si dimostra molto combattiva venendo piegata solo nel finale di partita.
Un ultimo ostacolo però sbarra la strada verso la finale: proprio quegli Stati Uniti, che per primi contribuirono a quella grandezza, ora impedivano di raggiungere la leggenda.
La partita non ha storia: la squadra di Krzyzewski è una squadra molto più cinica e affamata di quella del 2004 e conclude l’affare con un comodo divario di 20 punti, veleggiando verso l’ennesimo oro.
Per l’Argentina è solo bronzo, con la Lituania che viene battuta nuovamente nella finalina, e si ha l’impressione che l’onda si sia ormai infranta sul bagnasciuga e che solo una quieta e regolare risacca possa accompagnare il percorso della Generazione, nonostante dopo quelle Olimpiadi la nazionale argentina si ritrovi classificata come prima assoluta nel ranking FIBA.
Dorato declino
Una partita ruvida e combattuta contro la Russia di Kirilenko.
Le Olimpiadi del 2012 sono l’ultimo effettivo banco di prova per comprendere se quella finestra temporale del basket argentino è ormai conclusa.
La maggior parte del roster è anziano (Campazzo è il solo nato dopo il 1980) e il loro prime è ben lontano, tuttavia spirito di squadra, coesione ed esperienza sono ancora forti e l’Argentina concorre ai Giochi Olimpici con buone speranze.
L’accesso alla fase a eliminazione diretta è raggiunto senza troppi patemi (terza dietro Francia e USA) e nei quarti di finale ha facile gioco del Brasile; tuttavia, in semifinale sono nuovamente gli Stati Uniti a fare la parte del bullo con una partita a senso unico (26 punti il distacco a fine match).
Neanche la medaglia di bronzo giunge a lenire la delusione: l’albiceleste perde di misura contro la Russia di Mozgov e Shved in una partita molto fisica e tesa, decisa nei minuti finali da una possibile tripla del pareggio di Nocioni che, beffarda, viene sputata dal ferro.
È un amaro risveglio dopo anni di rapita ammirazione, la cruda realtà che annichilisce la contemplazione.
Ultimo tango a Rio
L’ultimo saluto.
E si giunge quindi all’ultima apparizione della generaciòn dorada, le Olimpiadi di Rio 2016.
Molti compagni si sono “persi” durante questo lungo e affascinante cammino (Oberto ritirato nel 2013, Hugo Sconochini l’anno prima) e del gruppo originario è rimasta solo l’anima più talentuosa e meno arrendevole (Scola, Nocioni, Ginobili e Delfino); si va in Brasile per un ultimo palpito, un estremo gesto d’amore verso il gioco e il pubblico.
Le possibilità sono poche, la vecchiaia prende alle gambe ed è solo l’esperienza e la conoscenza, del gioco e di loro stessi, a portarli avanti.
Ma l’alma, quell’anima competitiva e passionale, quella non è mai sopita.
E l’epilogo è la degna conclusione del viaggio con una vittoria e una sconfitta tipicamente “dorate”.
La partita con il Brasile alla quarta giornata, che con il senno di poi sarà fondamentale per la qualificazione, si conclude dopo due tempi supplementari con una vittoria al cardiopalma ed un ritorno all’antica giovinezza (con un Nocioni da 37 punti con 8/12 al tiro da 3 e la tripla decisiva per portare la partita al primo overtime), che mostra qualcuno destinato a raccogliere l’eredità e lo spirito di questa squadra (Campazzo sigla 33 punti e 11 assist con un plus/minus di +34); quella con l’America è invece una passerella d’onore dove il risultato non è mai in discussione (il punteggio finale sarà 105-78 per gli americani) e l’arena non smette mai di cantare incuriosendo persino le superstar NBA, lodi meritate per una squadra che meglio di qualunque altra ha saputo incarnare lo spirito della sua gente nella competitività e nel ritmo di gioco.
E dopo una sconfitta bruciante e al tempo stesso totalmente ininfluente, perché non aggiunge né toglie nulla a quello che questi ragazzi hanno rappresentato, ecco che il più grande figlio di questa Argentina, Manu Ginobili, piange. Il suo non è un pianto amaro ma è un pianto spezzato, che vuole nascondere, tipico di chi ha compreso cosa lui è stato per gli altri e cosa gli altri sono stati per lui, uniti sotto l’egida di questo sport e di questa nazione.
E si può immaginare cosa si saranno detti, guardandosi negli occhi, nello spogliatoio a fine partita: ”Somos el alma”.
Gioco a pallacanestro da quando ho 5 anni e mi piacciono i libri scritti da gente morta almeno un secolo fa. Per il resto tutto bene.
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