Siamo ormai alla fine di questo 2016, un anno infausto per gli amanti della musica: sono stati infatti tantissimi gli artisti che sono venuti a mancare da gennaio a dicembre, decretando il 2016 come vero annus horribilis della musica. Ciononostante, l’anno appena concluso ci ha regalato anche qualche gemma che vale sicuramente la pena di ricordare: ecco, quindi, una lista di cinque dischi che sono usciti nel corso dell’anno e che ci sono particolarmente piaciuti. In fondo all’articolo, inoltre, abbiamo stilato un elenco di dieci album meritevoli ma appena un gradino sotto rispetto ai cinque da noi selezionati. Buona musica e buon anno nuovo da IMDI!
Sirens è il secondo album di Nicolas Jaar, la prova della crescita di un artista giovane ma giunto a un livello incredibile di consapevolezza e maturità artistica. Un disco complesso, autobiografico, nel quale si riversa tutta l’intricata storia del musicista cileno: dall’emigrazione negli Stati Uniti, in seguito al golpe che porterà al potere il generale Pinochet, all’ingombrante eredità artistica del padre Alfredo, Nicolas Jaar apre l’armadio e mostra con disarmante lucidità i fantasmi del suo vissuto, realizzando un album decisamente personale e politico. Ogni brano è un bozzetto ad acquarello di una storia, un racconto al contempo lucido e fantastico che lascia l’ascoltatore incantato.
Killing Time, il brano di apertura, inizia dirompente con rumori di vetri e sferzanti note metalliche, per poi lasciare spazio ad accordi di piano e a un canto intenso che si spegne progressivamente. Si susseguono poi piece elettroniche eterogenee, che spaziano dalla new-wave spasmodica di Three Sides of Nazareth, che si basa quasi interamente su una linea di synth incalzante e su una voce baritonale, al manifesto politico del disco, No, costruito su una strumming guitar in levare che mostra, più di tutti, l’anima latina dell’artista.
Con quest’opera Nicolas Jaar si pone come uno dei protagonisti della nuova scena elettronica mondiale, contribuendo alla sua trasformazione anche concettuale: l’elettronica non è più musica dalle sonorità fredde e dai contenuti semplici, ma assume un carattere umano, antropologico, talvolta anche politico. Il merito è anche di un artista che, con Sirens, dimostra di avere molto, molto da dire. (Simone Barondi)
Anohni è l’ultima incarnazione di Antony Hegarty, cantante transgender giunto al successo assieme alla sua band Antony and the Johnsons. Il suo primo disco da solista, Hopelessness, è una delle sorprese più gradite che questo 2016 ci ha regalato.
La scelta del nome d’arte Anohni non rappresenta solo un distacco rispetto a quanto fatto precedentemente, ma è un vero e proprio segnale di rottura sotto ogni punto di vista: Anohni simboleggia il passaggio definitivo dal sesso maschile a quello femminile, sottolineato da un netto cambio anche nello stile musicale. Infatti, grazie al contributo dei produttori Oneohtrix Point Never e Hudson Mohawke, Hopelessness è contraddistinto da un massiccio utilizzo di strumentazione elettronica, in contrasto con l’art pop degli Antony and the Johnsons. Anche i temi trattati sono un qualcosa di nuovo nella carriera della musicista di origine britannica, con una particolare attenzione verso l’ecologia e la politica.
In tutto questo, a dominare incontrastata è l’incredibile voce di Anohni, talmente emotiva e commovente da trasmettere all’ascoltatore il messaggio in maniera così diretta da fare fisicamente male. Non si può restare indifferenti di fronte alla straziante Drone Bomb Me, dove Anohni veste i panni di una ragazzina afghana la cui famiglia è stata sterminata da un raid aereo, o alla struggente Why Did You Separate Me from the Earth?, in cui viene denunciato il menefreghismo dell’umanità nei confronti della natura.
Hopelessness è una sincera richiesta d’aiuto, un grido pieno di rabbia da parte di chi si sente ai margini della società in cui vive. Un grido talmente forte e puro che non può passare inosservato. (Vittorio Comand)
Li si può amare alla follia come li si può odiare con tutto il cuore, ma una cosa è innegabile: i Radiohead sono irrimediabilmente una delle band più importanti degli ultimi vent’anni. A Moon Shaped Pool, ultimo disco del gruppo inglese, non è altro che l’ennesima conferma del loro talento e del loro eclettismo. Perché in questo sta la grandezza dei Radiohead: cambiare tutto rimanendo sempre sé stessi.
Dopo nove album in studio, la band guidata da Thom Yorke dimostra di riuscire a trovare ancora nuove vie di sperimentazione e tecniche di linguaggio, senza mai suonare banale o comunque distaccandosi sempre da quanto fatto prima. A Moon Shaped Pool non è il rock più canonico di Ok Computer né l’elettronica The King of Limbs, A Moon Shaped Pool è semplicemente A Moon Shaped Pool.
Al primo ascolto, A Moon Shaped Pool può sembrare un disco incerto, ma è proprio in questo che si nasconde la sua intrinseca bellezza: la percezione che tutto sia così sospeso e sul punto di collassare su sé stesso è in realtà lo specchio di un equilibrio sonoro raffinatissimo, talmente in bilico che un solo elemento fuori posto rischierebbe di far crollare questo incredibile castello di carte.
A Moon Shaped Pool è stato però studiato nei minimi dettagli, con – per citare gli stessi Radiohead – ogni cosa al proprio posto. Dalla traccia di apertura Burn the Witch, costruita su un ansiogeno incedere di archi, fino al minimalismo di True Love Waits, canzone già suonata dal vivo ma mai registrata in studio prima d’ora, Yorke e soci accompagnano l’ascoltatore in un intimo viaggio all’interno dell’uomo, creatura meravigliosamente fragile di un universo troppo vasto per essere compreso. (Vittorio Comand)
Dopo aver stupito agli esordi con un prog metal tutto sommato canonico, gli Haken si addentrarono nel progressive classico, d’autore, con il (di nome e di fatto) mastodontico e inattaccabile The Mountain. Affinity invece, mostra un gusto completamente diverso ed inedito, già a partire dalla copertina.
Come una macchina nel tempo impazzita, Affinity viaggia negli anni, con l’estetica dei titoli e dei testi presa dalla grafica dei videogame anni ’80, la risolutezza delle scelte stilistiche riconducibili agli inizi del nuovo millennio, e istantanee dal futuro sotto forma di contaminazioni inedite per il genere. Non ci si spaventa, per esempio, a inserire la dubstep nel potentissimo singolo The Endless Knot, o di rispolverare addirittura il growl al termine della lunghissima suite The Architect. I glitch da cabinato sul tecnicissimo assolo di Lapse, le profondità iperspaziali esplorate negli acutissimi ritornelli del singolo Initiate.
Sulla scia dei Porcupine Tree e di Steven Wilson, dei Leprous, gli Haken mirano a concentrare quanto più possibile le emozioni in musica, basandosi su scelte stilistiche che sono un perfetto connubio tra melodia ed intensità. Un dualismo tra intima riflessione ed un dramma esternato, una negatività cosmica dalla quale non si può mai uscire.
Senza frenesia nell’innovare e nell’innovarsi, gli Haken sfruttano la posizione da trend setter che hanno ottenuto nello scenario per fare ciò che gli riesce meglio senza aver più nulla da dimostrare, e consegnando (senza sorprendere più di tanto) uno dei dischi più solidi dell’intero 2016. (Matteo Galdi)
Fra le vittime più celebri di questo 2016 va sicuramente citato David Bowie, il celeberrimo cantante inglese scomparso il 10 gennaio, due giorni dopo l’uscita del suo ultimo album Blackstar. Blackstar è diventato inevitabilmente il testamento artistico del duca bianco, malato da tempo di cancro e perciò perfettamente cosciente del suo destino ormai segnato.
Proprio la morte e le paure ad essa collegate sono i temi cardine di questo suo ultimo disco, presenti anche nei due brani Blackstar e Lazarus, gli ultimi due videoclip realizzati da Bowie. In particolare, Lazarus sembra quasi essere una premonizione dell’improvvisa morte del cantante: Look up here, I’m in heaven/I’ve got scars that can’t be seen/I’ve got drama, can’t be stolen/Everybody knows me now.
Blackstar è un disco che può ricordare per tematiche e per emotività gli ultimi lavori di Johnny Cash, mentre a livello prettamente musicale si può cogliere un interessante connubio di rock e jazz, grazie anche al contributo del sassofonista Donny McCaslin. Inoltre, lo stesso Bowie ha citato To Pimp a Butterfly di Kendrick Lamar fra le influenze del disco, a riconferma della poliedricità di questo grandioso musicista.
Blackstar è paragonabile ad una specie di diario scritto nel periodo prima di una morte già stabilita, che va solamente aspettata. Un disco con una forte impronta di tristezza ma che allo stesso tempo mostra come Bowie non abbia nessun rimpianto e che, nonostante la sua ora sia ormai quasi giunta, non si arrende all’inevitabile, continuando a fare ciò che gli riesce meglio: scrivere canzoni.
Questo disco è l’ultimo regalo della genialità di Bowie, un musicista inarrestabile e capace – anche in condizioni di salute precarie – di creare un’opera pregiatissima sia dal punto di vista tecnico che da quello emotivo. (Gianni Giovannelli)
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