Chi non ha un ricordo immacolato dell’infanzia, età ricca di esperienze che plasmano il nostro carattere e ci regalano tutte le fantastiche ansie e aspettative che rendono la vita da adulti deludente? Quel bellissimo periodo fatto di partite a calcetto nel cortile coi vicini coetanei, ginocchia sbucciate e urla delle madri dai balconi all’ora di cena, fumetti preservati come reliquie, masturbazione non ancora compulsiva e insoddisfacente e tanti altri magici eventi?
Ecco, Stranger Things, la nuova serie tv prodotta da Netflix, è tutto questo ma con il mostro cattivo.
Quattro piccoli “mangiacaccole” concludono una partita a Dungeons & Dragons e uno di questi decide, tornando a casa a notte fonda, di giocare a nascondino col Demogorgone. Sparito però il ragazzino, è il caos: la madre impazzisce e crede di comunicare con lui attraverso le luci di casa, i tre “piscialetto” rimasti devono fare i conti con gli ormoni e una Jean Grey in miniatura; lo sceriffo della contea, tormentato, cerca di risolvere il caso incappando in un groviglio di bambini Akira rapiti dal governo, cospirazioni, MK Ultra e presidenti non eletti (siamo onesti, quale serie ormai non prevede un minimo elemento di complottismo?).
Il setting dell’azione nell’Indiana del 1983 non suggerisce niente di nuovo, è ovviamente (come ci ricorda ogni testata che abbia recensito questa serie) il classico frutto della “operazione nostalgia” che affligge le produzioni odierne, ricco di chiari riferimenti a film cult come Stand by Me, I Goonies, E.T. e simili. Senza mai prendere una piega esageratamente dark (seguiamo infatti il processo di emancipazione dei fratelli adolescenti dei ragazzini tra sessualità repressa e fraintendimenti che regala qualche momento cringe-worthy) l’atmosfera si incupisce presto in tonalità degne di Silent Hill o Il Villaggio dei Dannati. Il calore delle scene domestiche e scolastiche si contrappone agli interni asettici del laboratorio governativo supersegreto proprio dietro al boschetto cittadino; suggestiva anche la rappresentazione delle visioni che ha mini-Jean Grey nella vasca di deprivazione sensoriale che ricordano in modo pericoloso il recente Under the Skin.
Da segnalare anche alcune idee prese in prestito da Alien, Insidious (il mondo parallelo “Sotto Sopra”) e dal “mostrificio” di Guillermo del Toro (la creatura è stata realizzata dalla Spectral Motion, che ha collaborato con il regista messicano).
Tutto sommato l’onanismo citazionista fa il suo dovere, e la serie funziona non solo perché si basa su pilastri più grandi (potrebbe tranquillamente essere tratta da un racconto di Stephen King) quanto piuttosto perché riesce a ricreare quel tipo di atmosfera senza renderla stucchevole: sa di déjà-vu, ma poiché non nasconde di esserlo, facendone anzi il suo punto di forza, lascia allo spettatore un discreto senso di piacere.
Side Note: da imputare come principale fautore di questo clima, oltre alla fotografia e agli sfx, è la colonna sonora: i gemelli Duffer (autori della serie) hanno sicuramente rubato la sigla da casa Carpenter e tra Clash, Joy Division, Echo & The Bunnymen e New Order e classici come Africa e I Melt With You, sono riusciti ad accontentare anche gli appassionati di musica.
Ragazzi, parliamo di Elegia, mica pugnette…
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