Fino a qualche anno fa sarebbe stato difficile da credere (anche il nostro senpai, in uno dei suoi storici articoli sugli anni ’90, riteneva il genere ormai logoro, come tutti del resto), eppure il 2D platform in tutte le sue varie declinazioni sta vivendo un’inaspettata seconda giovinezza. Bisogna precisare innanzitutto che da questa generale “riscoperta” del genere va tenuta in disparte Nintendo, che fa storia a sé: la casa di Kyoto ha sempre puntato sui suoi brand classici come Mario o Donkey Kong, pubblicando per le sue console fisse e mobili tra gli altri anche platform sia 2D che 3D dalle meccaniche classiche, anche negli anni in cui FPS ed action open world la facevano da padrone.
Questo ritorno in auge del 2D platform ha senza dubbio origine nella costante espansione della scena indie, piena di piccoli sviluppatori con le idee giuste da offrire ad un pubblico non attratto dai brand tripla A. Non è un caso che molte di queste idee si siano potute concretizzare attraverso il crowdfunding e vendere attraverso i voti positivi sullo Steam Greenlight. Già, perché al contrario di 20 anni fa dove i 2D platform erano di fatto prerogativa delle console dell’epoca mentre per PC potevi trovarci al più un Jazz Jackrabbit, oggi la piattaforma Valve è piena zeppa di 2D platform a prezzi competitivi e spesso infilati in bundle.
Anche in questo caso “l’effetto nostalgia” degli ultimi mesi – di cui abbiamo già parlato a sufficienza – è tangibile: è facile dimostrare come la maggioranza del pubblico che ha finanziato e che gioca a questi titoli oggi abbia intorno ai 30 anni (e spesso oltre), pubblico che tuttavia anziché piazzarsi esclusivamente davanti gli emulatori preferisce anche nuove sfide da affrontare. Il grande pregio dei 2D platform è senza dubbio quello di essere puro gameplay: nessuna cutscene, nessun QTE, nessun tutorial eterno, nessun grinding o farming, basta prendere il pad per affrontare il gioco faccia a faccia. Inoltre l’introduzione in moltissimi titoli di nuove features che impreziosiscono e al tempo stesso rinferscano un genere dalle meccaniche granitiche aumenta l’attenzione dei giocatori e fa sì che si preservi il livello di sfida in genere molto alto, in linea con quello dei platform dell’epoca. Anche il comparto audiovisivo ha subito notevoli miglioramenti rispetto al passato: quasi tutti i 2D platform odierni presentano grafica e OST con stili molto ricercati e suggestivi (difatti un capitolo sarà dedicato ai platform “artistici”). Certo, poi c’è sempre qualche ciambella che non è riusciuta col proverbiale buco (chi ha detto Mighty No. 9?)!
In questo primo capitolo elencheremo quelli che possiamo definire degli “instant classic”, cioè quei platform che possono essere tranquillamente annoverati tra i capolavori del genere sebbene siano stati pubblicati molti anni dopo i classiconi con idraulici baffuti o porcospini con la fissa della velocità:
Oggi Jonathan Blow e la sua Number None ci stanno deliziando con The Witness, ma il suo incredibile successo di critica e pubblico lo deve alla sua prima creazione, Braid. Uscito nel 2008 in esclusiva su Xbox Live, per poi essere portato l’anno seguente su PC, PS3 e Wii, Braid è stato il videogioco che ha fatto riscoprire all’industria videoludica il genere del puzzle platform che sembrava ormai relegato al casual gaming per smartphone. Uno stile grafico “ad acquerello” che ricorda i quadri di Van Gogh o di Monet, una OST ambient ben riuscita, una trama che dal classico “damsel in distress” prende una piega inaspettata e che si conclude con un finale che lascia libera interpretazione al giocatore, ma soprattutto un gameplay eccezionale basato sul controllo del tempo che può essere riavvolto, rallentato o accelerato per poter risolvere i tanti enigmi e recuperare i pezzi dei puzzles necessari per sbloccare i livelli successivi, rendono Braid quel capolavoro che chiunque deve giocare almeno una volta. Non mancano numerosi riferimenti al 2D platform per antonomasia: Super Mario Bros.
Sviluppato e pubblicato nel 2014 dalla Yatch Club Games (nata da una costola della WayForward) e finanziato in precedenza grazie ad una campagna su Kickstarter durante la quale mezzo mondo ha tirato montagne di soldi contro i monitor (oltre 300mila dollari raccolti), Shovel Knight è quel concentrato di tutta la gloria dei 2D platform dell’era 8-bit che gli amanti del genere stavano aspettando. Il level design di Shovel Knight è magnificamente ispirato ai capisaldi dei side-scroller platform del NES come i vari Megaman o Castlevania III, così come la OST chiptune ed il gameplay semplice e solidissimo, in cui il prode cavaliere protagonista può attaccare i nemici armato della sua fida pala, saltarci sopra a mo’ di pogo Ducktales-style, scavare tesori (con cui poter comprare potenziamenti e magie, nonché poter salvare i progressi di gioco) ed aprirsi varchi o scovare aree segrete nei livelli. Non mancano tantissimi altri riferimenti e citazioni ai mostri sacri dell’8-bit Nintendo, come Super Mario Bros. 3, Zelda II o Battletoads (che compaiono come boss secondari esclusivamente per la versione Xbox 360).
La trilogia di action platform basati sul motore nVidia PhysX dei finlandesi Frozenbyte iniziò col primo capitolo pubblicato nel 2009 (poi rimasterizzato nel 2014 col nome di Trine: Enhanced Edition) e proseguì con i due sequel rispettivamente usciti nel 2011 e nel 2015. Il gameplay di Trine è basato sull’intercambiabilità dei tre personaggi, ognuno con il proprio skillset: Pontius, un goffo ma potente cavaliere armato di spada e scudo con cui attacca i nemici, Amadeus, un mago capace di spostare telecineticamente degli ostacoli e far materializzare oggetti come passarelle o blocchi, e Zoya, l’agile ladra armata di arco e frecce e che può utilizzare un rampino necessario per raggiungere aree altrimenti inacessibili. L’utilizzo combinato delle abilità dei tre personaggi è necessario per poter risolvere i tanti puzzle basati sulla fisica disseminati tra i livelli e composti da meccanismi come ponti levatoi, piattaforme basculanti, pulegge, altalene, interrutori e cancelli, ragion per cui Trine è un titolo che si presta egregiamente al multiplayer, sia in locale che online. Le riuscitissime ambientazioni in stile fantasy medievale che abbondano di giochi di luce poi rendono l’intera trilogia una vera gioia per gli occhi. L’ultimo capitolo, Trine 3: The Artifacts of power, inoltre introduce sessioni in 3D platform che però hanno in parte svilito lo spirito dei precedenti due capitoli rendendolo più facile e più breve, ragion per cui ha riscosso molto meno successo e ha praticamente affondato un’eventuale possibilità di espandere la saga.
Sviluppato dalla piccola Moon Studios, first-party Microsoft, e pubblicato nel 2015 (poi rimasterizzato l’anno seguente per Xbox One col nome di Definitive Edition), Ori and the Blind forest ha riportato definitivamente alla ribalta il sottogenere dei cosiddetti metroidvania (di cui parleremo in un seguente capitolo), ossia di quei platform dal forte spirito esplorativo e con personaggi sviluppabili alla guisa di un ruolistico. Lo strabiliante successo di questo titolo è da cercare in una spettacolare ed onirica ambientazione di gioco che ricorda molto le opere di Miyazaki, vero maestro nello stregare pubblico e critica. Il gioco parla delle avventure di Oni, uno spirito della foresta simile ad un piccolo felino bianco accudito da una grossa creatura simile ad un orso chiamata Naru, chiamato a ripristinare l’equilibrio del mondo di gioco (la foresta di Nibel) insieme a Sein, un altro spirito a forma di un orb azzurro. Il gameplay è basato sull’esplorazione del mondo e su uno skillset di Ori strutturato ad albero ed espandibile man mano che si acquiscono attraverso la raccolta delle spirit lights.
Gli ultimi due capitoli della saga di Ubisoft pubblicati rispettivamente nel 2011 e nel 2013 hanno ridato nuova linfa ad un brand inspiegabilmente lasciato sopito per quasi un decennio, troppo presi dal riempire gli scaffali di capitoli e capitoli stampinati di Assassin’s Creed (parleremo in seguito anche dei loro spinoff Chronicles). La peculiarità di questi due titoli è nel loro motore grafico ideato da Micheal Ancel in persona per la sua creatura e sviluppato dal distaccamento canadese di Montreal: UbiArt Framework, utilizzato in seguito anche per lo sviluppo di Valiant Hearts e Child of Light, è un motore 2.5D che permette lo sviluppo di animazioni complesse a partire da sprites molto particolareggiati e simili a disegni, dando l’impressione di un “cartone animato” controllato dal giocatore, regalando nel complesso uno stile grafico molto particolare. Il gameplay non è variato dai precedenti capitoli: la melanzana ambulante col ciuffo può prendere a pugni in faccia i vari loschi figuri, arrampicarsi sulle pareti, saltare e planare con le sue classiche orecchie ad elica. Inoltre in Legends è possibile sbloccare altri personaggi giocabili, sebbene dallo skillset molto simile al protagonista. Sia Origins che Legends hanno riscosso un fortissimo successo da parte della critica, rendendoli a loro volta degli “instant classics”.
Chiunque conosca un po’ di storia del videogame ricorderà benissimo di The Great Giana Sisters, il palese plagio del primo Super Mario Bros. sviluppato dall’allora florida casa di sviluppo tedesca Rainbow Arts nel 1987 per gli home computer dell’epoca come il Commodore 64. Sebbene non ci fu mai un ricorso alle vie legali da parte di Nintendo (al contrario di varie leggende metropolitane dell’epoca alimentate dal ritiro delle copie nei negozi), la casa di Kyoto fece comunque molte pressioni sulla casa di sviluppo tedesca affinchè venisse fermata la vendita del videogioco con protagoniste le versioni transgender dei fratelli Mario. Nonostante il marchiano plagio, la creatura di Manfred Trenz e Armin Gessert è tuttavia ricordata con pareri favorevoli da parte del pubblico, che allora potè mettere mano ad una versione comunque molto fedele del celebre platform della big N senza dover comprare un NES, anche grazie alla iconica OST di Chris Hülsbeck, un mostro sacro mondiale della musica chiptune.
Molti anni dopo Nintendo accolse i “figliol prodighi” allora confluiti nella Spellbound Entertainment distribuendo nel 2009 un remake per DS del titolo e con ulteriori livelli. Poco dopo l’uscita di Giana Sisters DS e durante lo sviluppo di Arcania: Gothic 4, Armin Gessert purtroppo muore di arresto cardiaco. La Spellbound viene chiusa poco dopo per insolvenze e buona parte dei suoi programmatori tra cui Trenz fonda la Black Forest Games, lanciando contestualmente una campagna su Kickstarter per onorare la memoria di Gessert con un nuovo capitolo delle sorelle Giana. La campagna va a buon fine (oltre 150mila dollari raccolti) e grazie ad essa nel 2012 viene pubblicato Giana Sisters: Twisted Dreams. Il risultato finale è di un livello eccelso: le ambientazioni di gioco in 2.5D sono magnifiche ed il gameplay è notevolemente migliorato rispetto al classico platform anni ’80. In quest’avventura infatti Giana ha una doppia personalità: “Cute Giana” è bionda e può planare in aria con una piroetta permettendo di coprire distanze notevoli, “Punk Giana” invece ha i capelli rosso fuoco e può attaccare i nemici o distruggere alcune pareti di roccia attraverso un dash attack simile a quello di Sonic, ma meno prolungato. La meraviglia tecnica è data dal fatto che, contestualmente al cambio di personalità di Giana, anche l’ambiente di gioco varia nel level design (potendo così aprire varchi per proseguire i livelli) e nelle ambientazioni (Punk Giana vive in un mondo fiabesco e colorato, Cute Giana in un mondo decadente e spettrale). Anche la OST del gioco, basata su quella storica di Hülsbeck, varia al cambio della personalità, da uno stile classico in pianoforte ad uno decisamente metal con power chords alla chitarra elettrica. Twisted Dreams (con il suo DLC standalone Rise of the Owlverlord) è stato un autentico successo per i fan del genere grazie soprattutto ad un livello di sfida incredibilmente duro, con un level design davvero punitivo e con boss battles lunghe ed estenuanti.
Al prossimo capitolo, dove tratteremo altri sottogeneri.
Terrone, quasi ingegnere informatico, moderatamente misantropo, razionalista e liberalista convinto, ex weeaboo ora pentito, videogiocatore incallito da oltre 25 anni: mi piacciono le sfide, per questo sono su IMDI. Posso parlarvi di IT, letteratura moderna, musica elettronica, vidya e sport americani, basta che mi offriate una trappista. La mia waifu è Selphie Tilmitt.
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