Il sottogenere degli action platform è stato, durante le prime generazioni videoludiche, il calderone dove poterci buttare dentro ogni idea e concept che andasse oltre il semplice andare dal punto A al punto B saltando da piattaforma a piattaforma ed evitando (e talvolta combattendo) nemici ed ostacoli, sempre saltando. Ciò è tuttora valido sia per il variegato universo degli sviluppatori indipendenti sia per le software house che appartengono ai grossi publisher. Tuttavia è possibile apporre dei paletti per identificare meglio cosa si parla: con action platform, 2D o 3D che siano, vengono definitivi quei videogiochi con il classico level design da platform lineare o al più minimamente esplorativo, ma con un gameplay in cui è presente una varietà d’attacchi più complessa rispetto al semplice salto sui nemici, come ad esempio armi con diversi potenziamenti o la possibilità dello sviluppo del personaggio con un non troppo complesso skill tree. I capolavori del passato associabili a questo sottogenere ibrido si sprecano: i mille capitoli di Megaman, i primi Castlevania, Kid Icarus, la saga di Wonder Boy, Earthworm Jim, Jazz Jackrabbit, Vectorman, Turrican e molti altri ancora. Ed oggi? Ecco alcuni titoli.
Sviluppato interamente e pubblicato nel 2012 su Steam da due ragazzi canadesi sotto il nome commerciale di Spooky Squid Games, They Bleed Pixels è un platform dove sono magistralmente uniti un level design da pixel perfect jump pieno di spuntoni e seghe circolari (concettualmente simile a quello di Super Meat Boy) in pixel art ad un gameplay da beat’em up nel quale i vari nemici che si parano davanti all’anonima protagonista vengono presi a calci e pugni o, per essere più precisi, a calci ed artigliate. La sinossi del gioco infatti recita della nostra giovane protagonista abbandonata in uno sinistro ospizio per “ragazze problematiche”: il suo problema è l’essere tormentata da una serie di incubi lucidi (nei quali si trasforma in una creatura violacea con due grossi artigli insanguinati al posto delle mani) e dai quali è costretta a sopravvivere fino al mattino seguente, dove sistematicamente trova sul comodino un grimorio da lei trovato all’interno della libreria dell’ospizio, che presenta un rilievo con la forma degli stessi artigli che ha negli incubi. Ed è il modo in cui lei tenta di sbarazzarsi del libro a dare forma ai suoi incubi: quando proverà ad esempio a gettarlo in un fiume, nella notte seguente si ritroverà in un incubo dove rischia sistematicamente l’annegamento.
Un’ambientazione dichiaratamente ispirata alla lore lovecraftiana insieme ad una difficoltà generale del gioco che si assesta molto in alto hanno valso a questo titolo il meritato seppur limitato successo ed ai due ragazzotti ghiotti di sciroppo d’acero la possibilità di proseguire a sviluppare una nuova IP dal bizzarro titolo Russian Subway Dogs, un arcade platform in uscita a breve.
Momodora: Reverie Under the Moonlight (2016) è il quarto capitolo di Momodora, una piccola e semisconosciuta serie di action platform partorita da un’unica mente (il game designer rdein), iniziata nei primi anni di questa decade con i primi due capitoli freeware (tuttora disponibili su itch.io) ed il terzo pubblicato nel 2014 su Steam. I primi tre capitoli sono caratterizzati sì da una scelta artistica sia grafica che sonora molto ricercata, ma anche da un gameplay molto approssimativo, per non dire lineare, e dall’essere in genere molto brevi, concludibili in poche ore e con zero rigiocabilità. Reverie Under the Moonlight, precedente alla trilogia secondo la linea temporale dell’universo di Momodora (un prequel a tutti gli effetti), risulta essere molto più complesso e profondo rispetto ai suoi predecessori, preservandone comunque lo stile del level design: al classico gameplay da action platform è stata aggiunta un’esplorabilità dell’ambiente più convincente, sebbene non impegnativa come quella dei metroidvania. La protagonista, la piccola chierica Kaho, può saltare, evitare attacchi con una scivolata ed attaccare non solo in prossimità con una foglia (?) usata a mo’ di frusta, ma anche a distanza con arco e frecce; inoltre è possibile anche caricare l’attacco tenendo premuto il tasto d’azione come nei vecchi Megaman. Non mancano bossfight abbastanza complesse, un semplice loot system e la possibilità di sviluppo del personaggio attraverso potenziamenti, come ad esempio delle magie di supporto, sbloccabili o acquistabili durante l’esplorazione della mappa.
In principio fu I wanna be the guy, il celebre ragegame freeware divenuto famoso nella community di speedrunners su Youtube. Poi venne I wanna be the Boshy, gioco sviluppato dal danese Jesper “Solgryn” Erlandsen dal gameplay identico. Infine nel Novembre 2014 da quell’esperienza nacque dopo 2 anni di sviluppo Wings of Vi: sviluppato da Solgryn con altri programmatori sotto il nome commerciale di Grynsoft, Wings of Vi mantiene l’eccessiva difficoltà di quei titoli per via di un level design molto punitivo, per fortuna però senza i ridicoli trabocchetti e scorrettezze di quei due ragegame. In Wings of Vi si controlla – per l’appunto – Vi, una creatura femminile dalle fattezze angeliche intenta nel ritrovare un malvagio demone che è evaso dalla sua prigionia. Vi può saltare, spiegare le sue ali per un breve volo, scivolare ed attaccare nemici e boss, in principio con un attacco ravvicinato ed in seguito con un attacco a distanza sbloccabile. Non mancano aree segrete e tesori da scoprire, in cui sono soprattutto nascosti outfit diversi per la nostra procace angioletta, ma anche nuove armi o bonus d’attacco o di salute. Lo spirito dei platform masochistici da cui è nato Wings of Vi è però riscontrabile dalle ladder tipiche di quei giochi, come ad esempio classifiche per il gioco completato nel minor tempo o col minor numero di morti.
Piccola ma valida hidden gem sviluppata e pubblicata dalla Tic Toc Games di Shereef Morse nel 2015 per PC e varie piattaforme vidoeludiche in circolazione, Adventures of Pip aggiunge al classico gameplay da action platform bidimensionale la feature della variazione della risoluzione, già vista per esempio in Evoland. In un fantastico regno in cui il rango sociale dei suoi abitanti è dato dalla risoluzione del proprio sprite, Pip è un ragazzotto rappresentato all’inizio da un solo grosso pixel rosso, figlio di una serva della famiglia reale (che ovviamente ha la risoluzione massima possibile, simil 32 bit), la cui principessa ha l’innato dono di generare materia dal nulla (ovviamente composta da pixel). La principessa – con grande fantasia – viene rapita dall’antagonista di turno (una strega che vuole impossessarsi del suo potere) e sta al piccolo Pip salvarla. All’inizio della sua avventura Pip scopre di possedere il potere di manipolare anch’egli la materia pixelosa con la possibilità di mutare forma in tre risoluzioni differenti, ognuna con possibilità d’azione diverse: il Pip monopixel può saltare molto in alto, planare ed attaccare i nemici saltandogli addosso, il Pip ad 8 bit può aggrapparsi sulle sporgenze e attaccare i nemici con un pugno ed infine il Pip a 16 bit può attaccare i nemici con una spada, aprirsi varchi con essa e manipolare oggetti. Pip può abbassare la propria risoluzione a piacimento, può invece aumentarla solo attraverso dei cristalli azzurri posizionati ovunque nelle mappe dei livelli. L’utilizzo combinato delle varie azioni possibili per una data risoluzione è ovviamente necessaria per il superamento dei livelli e per l’esplorazione degli stessi alla ricerca degli abitanti del regno dispersi, tre per ogni livello. Tra i punti di forza di questo titolo va segnalata soprattutto la colonna sonora a cura del grande Jake Kaufman.
Terrone, quasi ingegnere informatico, moderatamente misantropo, razionalista e liberalista convinto, ex weeaboo ora pentito, videogiocatore incallito da oltre 25 anni: mi piacciono le sfide, per questo sono su IMDI. Posso parlarvi di IT, letteratura moderna, musica elettronica, vidya e sport americani, basta che mi offriate una trappista. La mia waifu è Selphie Tilmitt.
30 Maggio 2017
18 Aprile 2017
11 Aprile 2017
25 Marzo 2017
5 Marzo 2017
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