All’ombra dell’artificialmente illuminato Captain America: Civil War, e insinuandosi pericolosamente negli spiragli lasciati dall’hype per l’uscita di Doctor Strange, un segmento del Marvel Cinematic Universe sta imponendo la sua immagine sul piccolo schermo. Meno abbaglianti ed eclatanti di Agents of Shield, riescono a lasciare un’impronta ben più marcata nello spettatore, con tinte noir e toni atipici per un contesto come quello dei supereroi: questi prodotti si fanno inconfutabilmente rispettare. Stiamo parlando del sottouniverso di quelli che saranno i Defenders: Jessica Jones, Daredevil, Iron Fist e il protagonista di questo pezzo, Luke Cage.
Luke Cage è un nero, e la peculiarità di questa serie è ermeticamente rinchiusa in questo semplice dato di fatto. Non si tratta, banalmente, del colore della pelle del protagonista: a essere nera è l’essenza stessa del prodotto. Questo supereroe racchiude, per definizione, la volontà di raccontare la cultura afroamericana. Luke Cage – conosciuto anche come Hero for Hire o Powerman II – è stato il primo supereroe nero a essere protagonista di un proprio titolo fumettistico personale. Ma c’è dell’altro: con Jessica Jones, il pubblico aveva iniziato a considerare i superpoteri – paradossalmente – un aspetto secondario, e con Luke Cage l’esperimento si ripete. Luke è invulnerabile, ha una forza sovrumana, riesce a lanciarsi da un palazzo atterrando senza un graffio; eppure, la caratterizzazione del personaggio è sorprendentemente svincolata da questi aspetti. A essere avvincente, semmai, è la contestualizzazione di un afroamericano dal passato torbido in una comunità, Harlem, che diventa a tutti gli effetti la protagonista assoluta.
Harlem non è semplicemente fatta dalle persone che ci vivono: sono i cittadini stessi a essere Harlem. Ecco perché diventa così interessante scoprire questo contesto bipolare e camaleontico, fatto di gangster amanti della buona musica e di politici corrotti, che credono davvero di potere, nonostante i discutibili mezzi, raggiungere un fine incontrovertibilmente nobile: il secondo rinascimento di Harlem. Rinascimento che, negli anni Venti, è realmente avvenuto in questo quartiere di New York, culla del jazz, dello swing e del gospel, ma più in generale teatro di un’enorme esplosione culturale a opera della comunità afroamericana. Dal dopoguerra continua a essere atteso dagli abitanti un secondo rinascimento, e proprio su questo giocano gli sceneggiatori, sovrapponendo alla musica soul dell’Harlem’s Paradise – locale fittizio di proprietà dell’antagonista – una colonna sonora hip hop, genere per cui la Harlem reale continua a essere un vivaio incredibile. Nella Harlem di Luke Cage, una comunità estremamente corrotta e ormai quasi invivibile, l’unico metodo efficace per mettere ordine sembra essere la forza. Per il protagonista, d’altra parte, questo modus operandi non è certo un problema: Luke Cage è il Capitan America nero di cui Harlem ha bisogno per rinascere.
Particolarmente convincente è Mahershala Ali, l’antagonista di turno, già Remy in House of Cards, che convince appieno nei panni – apparentemente simili, ma in realtà profondamente diversi – del gangster Cottonmouth. Un personaggio, questo, terribilmente razionale e cinico, che rimane tuttavia legato a un passato da musicista e ad una sensibilità che si scorge appena, ma che rappresenta la vera natura del personaggio.
Nonostante Cottonmouth e altri personaggi eccellentemente caratterizzati, questa serie presenta comunque, soprattutto nella prima metà della prima stagione, una certa prevedibilità, in particolare per quanto riguarda alcuni personaggi la cui evoluzione è prevedibile sin dalle prime battute. Non mancano comunque i colpi di scena, e questo prodotto si conferma un’ottima rivisitazione di un fumetto relativamente anonimo, riuscendo persino ad affiancarsi alle altre serie Marvel-Netflix senza sfigurare affatto, ma anzi intrecciandovisi perfettamente, sia dal punto di vista del filone narrativo, sia dal punto di vista della qualità del prodotto.
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