Una visione psicologica del perché, nonostante le milioni di vittime, la gente comune non senta la necessità di rivoltarsi contro il terrorismo.
Quando nel mondo capita qualcosa di spiacevole e inaspettato, come gli attacchi terroristici, si cerca sempre di darsi una spiegazione. A volte abbiamo le competenze per farlo, a volte proprio no. Così capita che, a parità di disgrazia, ci sia chi parla dell’evento come complesso frutto di innumerevoli cause politico-economiche e chi, tenendo in mano il sacro libro del complottismo, afferma che sia tutta una farsa.
Ma alcune domande difficilmente, per un motivo o per l’altro, trovano una risposta: “Perché, nonostante tutte le vittime, nessuno si rivolta?” “Perché la gente si fa ammazzare tranquillamente senza protestare?” “Perché ancora non ci sono state rappresaglie contro le moschee?”
Potrei dirvi che la soluzione è che gli occidentali sanno bene quale sia la differenza tra terrorismo e religione. Che sono consapevoli che chi si fa esplodere gridando il nome di Allah non fa parte delle innumerevoli persone che credono nell’Islam. Che sono a conoscenza che si muore per ignoranza e fondamentalismo. Che il fondamentalismo è comune a tutte le religioni ed epoche storiche. Che non c’è lo zampino degli illuminati.
Potrei dirvelo, ma mentirei.
Un importante aiuto nel dare una spiegazione a questo interessante fenomeno può arrivare dalla Intergoup Emotion Theory (Smith & Mackie, 2009). Questa teoria mette in evidenza come comportamenti specifici siano derivanti da attivazioni emotive specifiche elicitate da specifici stimoli sociali. Il tutto preceduto da un’attivazione fisiologica. Quest’attivazione, nutrita dagli stereotipi e dall’influenza culturale (credenze ingenue sul funzionamento del mondo, ecc.) porta il gruppo “avversario” (outgroup, ovvero “loro”; opposto di ingroup, “noi”) a essere percepito come ostacolo o minaccia pericolosa, come facente richieste ingiuste o come violatore delle norme del proprio gruppo (per esempio i valori del cattolicesimo come le festività, tradizioni culinarie ecc.). Questo tipo di attribuzione si traduce in un’associazione con risposte emotive specifiche: in questo caso rabbia e paura. La teoria mette in evidenza anche come, a questo punto, venga generato il comportamento specifico: in questo caso attacco o evitamento. Gli autori, con questo modello, dimostrano non solo come ci siano emozioni specifiche che contribuiscono a generare specifici comportamenti, ma anche come questo sia il frutto di una interpretazione stereotipica del gruppo “che in quel momento ci fa del male”.
Alla luce di questa teoria, possiamo leggere la domanda iniziale in una chiave differente. Ci troviamo, infatti, davanti a due comportamenti molto diversi: il ribellarsi e il fuggire. In termini più precisi, il “muoversi contro” e il “muoversi lontano”. Questi due comportamenti sono alimentati, come una sorta di combustibile, da due emozioni differenti: rispettivamente la rabbia e la paura. La rabbia facilita la “rivolta” perché diminuisce il senso di pericolo e la percezione del rischio, aumenta la tendenza all’azione e l’ottimismo. La paura, invece, aumenta il senso di pericolo, il pessimismo e la ricerca di protezione, facilitando l’”evitamento”. In parole povere, chi scappa ha paura, chi attacca prova rabbia.
Guardando la realtà da questo lato, risulta più semplice dare una risposta al perché le persone non si attivino. La gente, le vittime, le persone comuni hanno paura. Il motivo del perché non si ribellano, non mettono in atto comportamenti estremi contro il terrorismo, rivalse contro simboli islamici sta proprio nella mancanza di rabbia.
E il terrorismo fa paura.
Ci sono però eventi negativi che fanno scoppiare rivolte contro i carnefici. La più recente è la protesta dei “black lives matter” che ha portato (e porta ancora) scontri e morti tra i poliziotti. Oppure si può andare indietro nella storia, fino alla presa della Bastiglia, di cui, tra l’altro, la Francia stava festeggiando l’anniversario durante l’attentato. Questi sono tutti esempi di comportamenti alimentati dalla rabbia.
Il punto focale è nella natura dell’evento e della sua portata a livello di percezione sociale. Infatti non bisogna dimenticare la percezione dello stimolo sociale: c’è una differenza sostanziale tra gli attentatori dell’Isis e i poliziotti americani.
Gli attentatori dell’Isis non sono riconoscibili, può esserlo chiunque. Non abbiamo regole e schemi mentali che ci permettono di immaginarci un attentatore tipico. Non sappiamo da dove vengono, cosa credono veramente. Le notizie su di loro sono vaghe, poco rappresentative. Sappiamo solo che sono dei folli che credono in qualcosa di folle. Ma la follia è imprevedibile. Per questo proviamo paura. Non conosciamo chi vuole farci del male. Non si può combattere chi non si conosce. Dalla non-conoscenza si scappa.
I polizotti americani, invece, sono ben riconoscibili. Tutti sanno chi sono, cosa fanno e sappiamo cosa aspettarci da loro. Se fanno qualcosa di sbagliato, come uccidere neri innocenti, si ha la percezione che qualcosa non va nel verso giusto. Abbiamo video che riprendono questi comportamenti. I carnefici sono vivi, e non vengono processati. Sono protetti e la fanno franca. Si prova inevitabilmente ingiustizia. E per i neri sono un ostacolo. E agli ostacoli si reagisce con rabbia, e la rabbia aiuta ad eliminarli (sia in maniera reale che simbolica).
La differenza è, dunque, nella natura dello stimolo sociale e dell’emozione che ci scatena, nella sua immaginabilità e nella sua conoscenza.
Pensiamo davvero che il problema sia nella guerra tra credenze religiose. Ma quando si ammazzano migliaia di innocenti per paura non si reagisce, quando compare un kebabbaro di troppo si percepisce una minaccia ai valori del proprio gruppo di appartenenza, e incendiare una moschea diventa una necessità.
Stefano D. Urso
Per dettagli e approfondimenti:
Mackie, D. M., Maitner, A. T., & Smith, E. R. (2009). Intergroup emotions theory. Handbook of prejudice, stereotyping, and discrimination, 285-307.
Con una laurea e tre quarti in psicologia sociale mi diletto nella pasticceria e nel scrivere racconti sconclusionati. Il mio sogno è avere un grado di autorevolezza tale da permettermi di dire a tutti che i loro ragionamenti sono sbagliati senza farmi picchiare. Ecco perché scrivo per IMDI.
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