Quali sono le differenze tra le odierne religioni monoteistiche e quella greca?
Semplice, quella greca era a misura d’uomo. Non imponeva assurdi diktat, ma, tramite storie di dei ed eroi, affrontava molte questioni a livello psicologico. Questioni che poi sono state seriamente riprese solo a fine Ottocento/inizio Novecento. Una di queste riguarda la necessità dell’uomo di vivere anche “l’irrazionalità”. Il cosiddetto “spirito dionisiaco” di cui parlava Nietzsche. Ed è di quello che parlerò oggi.
Come premessa alla comprensione dell’articolo è richiesta la conoscenza (anche superficiale) de “Le Baccanti” di Euripide. Di seguito troverete un’ottima sintesi della tragedia scritta da Massimo di Marco (tratta da un libro che consiglio vivamente a tutti gli interessati: La tragedia greca). Ovviamente chi conosce già l’opera può saltare al paragrafo successivo.
“Muovendo dall’Asia con il suo tiaso, Dioniso è giunto in Grecia. È figlio di Semele e di Zeus, ma le sorelle della madre – Autonoe, Ino e Agave – non credono alla sua origine divina. Della stessa opinione è il re Penteo, figlio di Agave, che si rifiuta perciò di celebrarne il culto. Ma il dio intende vendicarsi: ha assunto le sembianze di un giovane mortale dai lunghi boccoli biondi e profumati e, professandosi un seguace di Dioniso, ha invasato e trasformato in menadi Autonoe, Ino e Agave e le altre donne di Tebe, che ora folleggiano in massa sulle balze del Citerone. Inghirlandati d’edera, con indosso la nebride e tra le mani il tirso, anche Tiresia e Cadmo, pur vecchi, si accingono a recarsi sul monte per partecipare ai nuovi riti. Penteo irride al loro singolare fervore, così poco adatto alla loro veneranda età, e accusa Tiresia di accreditare la fama di Dioniso come dio unicamente per i vantaggi che potrà lucrarne nella sua attività di indovino; quanto alle donne sorprese a celebrare i riti orgiastici, egli ha dato ordine di metterle in catene. Invano Tiresia cerca di fargli comprendere che Dioniso è davvero un dio: Penteo continua a negarlo, ed anzi ordina ai suoi servi di rovesciare il seggio dell’augure e di arrestare immediatamente il giovane forestiero. Una guardia porta al re una duplice notizia: il giovane è stato catturato senza che opponesse resistenza; ma al tempo stesso i ceppi che tenevano incatenate le menadi si sono prodigiosamente sciolti da soli, ed esse sono nuovamente fuggite sul Citerone. Penteo sottopone a interrogatorio il forestiero, ma ne riceve solo risposte ambigue ed ironiche; fortemente irritato, lo fa rinchiudere nelle stalle del palazzo. Dioniso tuttavia si fa beffe del re, facendolo cadere preda di paurose allucinazioni, e, scuotendo dalle fondamenta la reggia con un terremoto, riappare miracolosamente libero ai suoi occhi. Giunge al palazzo un mandriano a riferire ciò che ha visto mentre pascolava i suoi armenti sulla montagna: il modo del tutto pacifico con cui le menadi, riunite in gruppi, nutrivano al loro seno cerbiatti e cuccioli di lupi e facevano sgorgare dalla roccia con i loro tirsi polle d’acqua, e dal suolo vino, latte, miele; ma anche la loro terribile reazione al tentativo di essere catturate, con giovenche e tori squartati, e l’abbattersi della loro furia selvaggia sui villaggi posti alle pendici del Citerone, il sangue versato, la loro invulnerabilità ai colpi portati contro le loro persone. Ma neppure ora Penteo crede all’origine divina di Dioniso e ascende il Citerone. Un messaggero viene a raccontare la sua orrenda morte: collocato da Dioniso in cima ad un abete, Penteo è stato avvistato dalle menadi che hanno abbattuto l’albero e fatto strazio del suo corpo, dilacerandolo con le nude mani e disperdendone i pezzi per il bosco; ad infierire sul misero re sono state soprattutto Autonoe, Ino e Agave; inutilmente Penteo ha supplicato sua madre di risparmiarlo; ora Agave sta scendendo verso Tebe portando infisso sul suo tirso il capo del figlio, fiera perché crede di avere ucciso un leone montano. Quando Agave compare dinanzi al palazzo con il suo macabro trofeo, ancora posseduta dal delirio estatico. A stento suo padre Cadmo, che si è preoccupato di recuperare gli altri resti di Penteo, riesce a farla tornare in sé e a farle prendere la coscienza della terribile azione compiuta: Agave ricompone mestamente le membra di suo figlio e comprende che il dio ha voluto punire l’empietà di entrambi. Nel finale Dioniso disvela a sua vera natura divina e predice a Agave e alle sorelle l’esilio da Tebe a e Cadmo le sue vicende future.”
Qual è la morale della favola? Anche di fronte all’evidenza Penteo rifiuta Dioniso e così ne paga le estreme conseguenze tramite gli stessi strumenti che ha rifiutato (cioè i riti dionisiaci). Ma è la semplice venerazione di un dio? Io credo di no.
Euripide era sempre stato molto scettico nei confronti degli dei nelle sue opere, alcuni critici/storici lo definiscono ateo infatti. Allora cosa tentava di dirci con quest’opera?
Una possibile risposta a questa domanda è data dalla collocazione temporale dell’opera: scritta tra il 406 e il 407 a.C. venne rappresentata ad Atene solo nel 403 a.C durante le Grandi Dionisie (all’interno di una trilogia che gli valse un premio postumo). Perché dovrebbe essere importante la data? Perché nel 404 a.C. Atene cade sotto Sparta, segnando così la fine della Guerra del Peloponneso e quindi del periodo di massima espressione della civiltà ateniese. Mentre i lavori di Sofocle ed Eschilo avevano conosciuto i tempi d’oro di Atene (così come i primi di Euripide d’altro canto), “Le Baccanti” arrivano in tempi di totale decadenza, acquisendo un gusto malinconico ma anche una consapevolezza in più rispetto alle opere degli altri grandi tragediografi. È lecito dunque pensare che “Le Baccanti” più che una semplice tragedia a sfondo religioso, sia qualcosa di più, per esempio una lettura metaforica della decadenza ateniese.
Ma perché la mancata venerazione di Dioniso porterebbe alla distruzione? Perché egli è sì il dio del vino, dell’agricoltura e della natura, ma anche del teatro, della cultura, dell’ebrezza, dell’estasi e degli istinti vitali (non a caso fa spesso uso della maschera, strumento riconducibile all’inconscio). Se si tralascia dunque il lato dionisiaco per una visione troppo razionalistica (apollinea) della vita si crea uno squilibrio che prima o poi crea dei danni. Vale per le persone come per la società. Non è un caso che il periodo del positivismo si sia concluso con la follia delle due guerre mondiali e l’epoca del totalitarismo.
Una domanda dunque mi sorge spontanea: la nostra società dà importanza a Dioniso? Io credo di no. Intorno vedo solo becero materialismo, molte persone sono solo gli oggetti che possiedono o il lavoro che fanno, il che porta ad una crisi di valori che ci fa diventare “Quello che non siamo”. La gente fa tre giorni di fila per comprare un telefonino da 700 €, ma i teatri sono spesso semi vuoti, le librerie devono vendere libri spazzatura per campare e la distruzione di un bassorilievo di Canova per colpa della disattenzione di un ex Ministro dei Beni Culturali (se così si può definire quel sacco di merda) rimane praticamente inosservato, mentre tutto il mondo si mobilita (addirittura i parlamentari vengono alle mani) perché la Barilla non vuole gay nelle pubblicità. Ma le conseguenze di tutto ciò si vedono, il “Tramonto dell’Occidente” è sempre più evidente e lo sarà sempre di più. Ma chissà, forse quando i soldi finiranno e le scritte cinesi saranno sempre più presenti sulle strade italiane la gente capirà che le nostre origini (e dunque la strada da perseguire) non sono in un logo o nelle proteine degli hamburger, ma nelle parole dei grandi pensatori occidentali.
Concludo cercando un po’ di speranza. Il mio consiglio è nelle parole di Baudelaire:
“Bisogna essere sempre ebbri. È l’unico problema, non c’è altro. Inebriarsi senza tregua per non sentire l’orrendo peso del Tempo che vi rompe la schiena, che vi inginocchia al suolo.
Ma di che? Di vino, di poesia o di virtù – a piacer vostro. Ma ubriacatevi.
E se a volte – sugli scalini di un palazzo, nell’erba verde di un fosso, nell’incupita solitudine della vostra stanza – vi sarete svegliati, l’ubriacatura già dimezzata o svaporata, chiedetelo al vento, alla stella, all’uccello, all’orologio, all’onda: a tutto che fugge, che piange, che scorre, che canta, che sussurra: chiedete che ora è! E il vento, la stella, l’uccello, l’orologio, l’onda, vi grideranno: <<È ora di ubriacarsi! Ebbri! Per non essere gli schiavi seviziate del Tempo: ubriachi! Senza tregua! Di vino, di poesia o di virtù – a piacer vostro>>.”
Lo spleen di Parigi, poemetto XXXIII, Ubriacatevi
Di vino, di poesie o di virtù… Inebriarsi ragazzi, inebriarsi…
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