É da poco che in Italia, o più nello specifico nell’internet italiano, si è iniziato a parlare di giappominkia, un “iponimo” (insieme minoritario all’interno dell’iperonimo, più grande) di bimbominkia che, invece di basare la propria triste esistenza sugli One Direction o chi per loro, sono invece ultrafanatici, in modo non solo ostentato ma proprio ridicolo, degli anime e manga più in voga del momento.
Spesso la loro adorazione per tutto quello che è giapponese nasconde in realtà una profonda ignoranza degli aspetti meno superficiali della cultura nipponica, che, benché vi possa sembrare impossibile, non è del tutto coincidente con quella dell’animazione che conosciamo noi. Ma dai? Lo dimostra anche il fatto che i giappominkia si autodefiniscono spesso otaku, con un’accezione positiva, mentre il termine è in realtà usato dai nipponici in senso discriminatorio (e non l’ho “letto su un blog”, mi è stato rivelato da veri giapponesi) verso chi è ossessionato dalla sottocultura dell’animazione e da tutto quello che ci gira intorno. Un po’ come se ci si vantasse di essere sfigati, insomma.
Il primo problema quando di parla di giappominkia, nel senso di appassionati di fenomeni culturali provenienti dal Giappone, è che in un certo senso tutti siamo o siamo stati giappominkia. E non parlo solo di nerd che se la menano sui forum di chi sia più gnocca tra Asuka e Rei e che usano in modo non ironico espressioni ritardate come “baka”; anche il grezzone del bar di paese da bambino ha visto Holly e Benji (che il giappominkia chiama ovviamente “Captain Tsubasa”) e gioca a PES, della nipponicissima Konami. Non so se tra i quindicenni di oggi esista ancora uno stigma sociale nel leggere manga (ai miei tempi sì, se ti leggevi Berserk durante l’interrogazione di latino invece della Gazzetta eri giocoforza considerato “strano”), ma se era normalissimo essere appassionati di Dragon Ball ai tempi lo è guardare Naruto o One Piece adesso, ed è abbastanza difficile avere anche solo quattro o cinque videogiochi senza che almeno uno sia di origine giapponese.
I giappominkia quindi non sono considerati scemi o fastidiosi perché consumano in gran quantità “prodotti culturali” giapponesi, cosa che non mi vergogno affatto di fare. Il problema, facilmente riscontrabile in chi usa suffissi come -chan o -sama su facebook, o non si vergogna di definire altre persone senpai, è la superficialità. Non è del resto un caso che il corrispettivo inglese di giappominkia, weaboo, sia usato in senso offensivo su 4chan (che, sapete bene, è maledettemente influenzato dalla sottocultura nipponica). Ad avere una passione, anche un’ossessione, per un film, fumetto, videogioco o libro che sia non c’è niente di male. C’è invece del male a trasformare i propri interessi in uno “stile di vita”, a piegarsi ai cliché irrigiditi che trasformano una nicchia di interessi in un’etichetta. Non vi faccio altri esempi, perché se avete qualche giappominkia tra i vostri contatti di Facebook (e probabilmente ce l’avrete, sono tanti) saprete benissimo a cosa mi riferisco. Beninteso, si può essere appassionatissimi di manga e anime senza essere di fatto dei giappominkia, il problema è che l’ossessione di questi ultimi, manifestata in modo ridicolo su internet e alle fiere del fumetto, rende spesso irritante la categoria dei “fan delle giapponesate” tout court. Chiaro, di fanboy e poser ce ne sono sempre stati, solo che non c’erano i social media a renderli così insopportabili.
Dicevamo comunque della cultura giapponese: in tanti si illudono di sapere tutto del Giappone perché hanno visto Evangelion e Cowboy Bebop (che piacciono anche a me, eh!). La piacevole, non dico di no, evasione in un mondo parallelo che molti prodotti culturali nipponici garantiscono ci racconta però meno di quello che pensiamo su quello che sia, di fatto, la vita in Giappone. Non so quanti degli “otaku” che si presentano il primo giorno di lezione di lingue orientali con un cosplay di Naruto (cosa, mi han detto, veramente accaduta) o che prendono appunti con un “Death Note” pagato 15 euri al Lucca Comics sappiano, ad esempio, che la “figosità” del Giappone restituita dagli anime nasconde in realtà moltissime ombre di una società che sembra all’avanguardia, quando in realtà è ancora inscatolata in logiche di pensiero che per noi occidentali sembrano medievali.
Pensare che manga e anime siano una trasposizione accurata della società giapponese sarebbe come guardare dei film di Pieraccioni e pensare che gli italiani sono tutti così (per fortuna no). Pensate solo all’iconografia dei manga: i personaggi hanno colori di capelli di tutti i tipi, occhi enormi, le donne sono tettone e gli uomini hanno fisici scolpiti. Avete presente le orde di giapponesi che fotografano ogni cazzata a Firenze e Venezia; vi sembrano simili per aspetto e comportamento a Goku o a Lamù? Vi ricordate della puntata di GTO in cui Onizuka deve ricorrere a torture mentali e fisiche pur di passare un esame? Beh, ci abbiamo riso sopra, ma si tratta di normalità per lo studente giapponese tipo, costretto fin da giovanissimo a sottoporsi a un carico di studio intollerabile per accedere prima alla scuola media giusta, poi al liceo giusto e quindi all’università giusta. Gli anni universitari sono considerati da tutti un momento di svago e di libertà in attesa di una vita adulta fatta di 13-15 ore al giorno di lavoro (e spesso la sera o il weekend sei costretto per obbligo sociale a passare il tuo tempo “libero” con il capo e i colleghi) e lunghi viaggi in treni sovraffollati per arrivare a un buco di appartamento con vite sociali e familiari spesso misere. Cazzate, dite, esagerazioni? Parlate con dei giapponesi veri, come ho fatto io, leggete libri come “Giorni Giapponesi” di Angela Terzani, o riflette anche solo un po’ su quello che raccontano autori alla moda come Murakami e Banana Yoshimoto, non c’è bisogno di informarsi chissà quanto.
Il Giappone mi ha sempre affascinato proprio grazie ai suoi prodotti culturali, che mi hanno stimolato la curiosità di vedere oltre il fascino “Kawaii” che il Sol Levante ha assunto in occidente negli ultimi vent’anni (prima, ricordiamolo, si pensava ai giapponesi più che altro come a degli automi asociali e ossessionati dal lavoro, un luogo comune di fatto non così lontano dalla realtà). Mi sono fatto raccontare un po’ di cose da miei coetanei giapponesi che ho conosciuto in Irlanda, più o meno tutti introversi, un po’ autistici e inclini a farsi un goccetto (e infatti mi son sempre trovato bene tra loro). Ho letto tanti libri di occidentali che hanno vissuto in Giappone o sulla cultura giapponese, ho trovato molto aspetti affascinanti e ancora più lati inquietanti e ombre. Il 31 luglio parto per Osaka a trovare due miei amici nipponici e a girare un po’. Certo, non vedo l’ora di vedere i cessi ultratecnologici, i distributori automatici più improbabili, Akihabara e tutti i negozi multi-piano di nerdate, i gadget di Totoro, i bento e pure qualche tempio scintoista, ma sì. Ma non mi dispiacerebbe riuscire anche ad osservare qualcosa della vera vita giapponese. Stiamo parlando di gente che censura i genitali nel porno, dai, per forza che hanno qualcosa che non va.
Dicevamo dei giappominkia, quindi? Beh, io parto per il Giappone e voi no, gne gne gne.
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