Contrariamente al pensiero comune, le auto elettriche non saranno la forma di mobilità di domani; forse lo saranno del dopodomani ma in ogni caso non nella loro forma attuale, ed in questo articolo (diviso in quattro capitoli pubblicati separatamente) verrà spiegato il perché.
Il fatto che per ancora molti anni le auto elettriche non prenderanno davvero piede nell’utilizzo quotidiano non significa che non ci sia alcuna possibilità di distaccarsi dagli idrocarburi, ma semplicemente che le stime di tempo ottimistiche del pensiero comune verranno rispettate difficilmente. Le lobby del petrolio o l’industria automobilistica stanno ostacolando un passaggio inesorabile perché i costi di reingegnerizzazione sono troppo alti da sostenere? No. La verità è che al momento l’auto elettrica ha problemi di performance, problemi gravi. Il motore elettrico sarebbe di per sé di gran lunga più efficiente, soprattutto nella sua applicazione AC trifase sincrona che può raggiungere efficienze del 96%, mentre un motore DC economico tipicamente ha valori intorno al 70% in condizioni di carico minimo. Per contro, l’efficienza di un motore endotermico a compressione di ultima generazione (diesel) ha picchi massimi intorno al 40%.
Nei primi anni di vita dell’automobile ci fu una lotta serratissima tra motori endotermici e motori elettrici. Una rete elettrica già abbastanza capillare (soprattutto negli USA), una conoscenza relativamente avanzata dei motori DC e di alcuni tipi di accumulatori ebbero la meglio sui motori endotermici nei primissimi anni del ‘900, complici la mancata conoscenza dei processi industriali utili per raffinare i carburanti in maniera adeguata e diversi problemi di tenuta meccanica che riducevano le efficienze di questi ultimi anche fino al 3-4%. Basti pensare che alla fine del diciannovesimo secolo il primo record di velocità massima in tripla cifra fu conquistato proprio da un’auto elettrica.
Addirittura il padre della motorizzazione di massa, in complicità con il padre dell’elettrificazione di massa, tentarono di proporre un veicolo elettrico ma si scontrarono con problemi alle batterie. Un altro gigante dell’automobile di inizio secolo, a cui è imputabile la paternità del più grande colosso automobilistico europeo, tentò una strada insolita proponendo un sistema che combinasse termico ed elettrico, ossia quello che oggi chiamiamo ibrido e conosciamo con il nome di Loehner-Porsche.
Il progressivo miglioramento dei processi tecnologici di costruzione dei motori endotermici, della comprensione dei processi di combustione e della raffinazione dei carburanti (nonché reti capillari di distribuzione dei carburanti stessi) portarono alla definitiva sconfitta dei sistemi elettrici. I sistemi elettrici verranno di fatto confinati su veicoli non di trasporto urbano come i golf cart ed i carrelli per la movimentazione delle merci nei magazzini, dove non sono necessarie autonomie eccessive e il peso dei veicoli stessi è contenuto, senza contare che le protezioni all’individuo limitate permettono alleggerimenti e la stessa velocità di movimento è bassa.
Tuttavia, all’alba degli anni ‘70, per vari riassetti geopolitici il mondo conosce la crisi del petrolio. Questo, unito all’insorgere dei movimenti ambientalisti, pone di fatto fine all’età dell’oro dell’industria automobilistica (soprattutto americana), fatta di automobili sempre più grandi e di cilindrate e potenze sempre maggiori. La parola d’ordine inizia ad essere efficienza e le muscle car, per problemi anche di marketing, finiscono in sofferenza.
Tornano sulla pista, principalmente portate avanti dagli ambientalisti, le auto elettriche. Le case accompagnano le mode e così vengono proposte sul mercato la Fiat Panda Elettra, la General Motors EV1 e la Honda EV Plus (oltre che migliaia di concept car) e definirle disastri è fargli un complimento. Nel frattempo i giapponesi di Toyota lanciavano sul mercato una piccola rivoluzione sulle orme dell’ingegner Porsche: la Prius, la prima auto ibrida in produzione massiva. Tutto ciò che è successo dopo è storia recente, ma tutte le grandi case fino a metà 2000 rabbrividivano al solo sentir parlare di elettrico.
C’è una costante in queste storie di fallimenti: le batterie. Lo stesso successo della prima generazione di Prius è determinato da una soluzione originale da parte degli ingegneri della casa giapponese: usarle meno (restringendo la banda di vita utile) per conservarle meglio. Le resistenze operative e la gestione dei flussi termici sono la ragione del fallimento dell’esperimento Ford-Edison, che trovandosi per necessità a sostituire le batterie nichel-ferro (per problemi legati proprio alla resistenza interna e un incendio scaturito nel reparto sperimentale) con i più comuni accumulatori al piombo, si sono trovati in mano un veicolo che per ottenere l’autonomia sperata avrebbe necessitato di troppo peso.
Contrariamente a quello che si pensa, non è così semplice collegare in serie batterie (da cellulari ad esempio) e gestire i relativi flussi termici e bilanciamenti elettrici. Infatti, per i processi produttivi attuali, piccole impurità tendono a creare delle grosse differenze in termini di resistenza elettrica, che in condizioni di scarica fanno sì che ogni batteria (o meglio cella) elementare si scarichi in maniera differente dalla vicina, ma l’argomento verrà trattato più nel dettaglio nei prossimi due capitoli dell’articolo (cliccando qui per leggere la seconda parte).
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