Nel suo libro più famoso, “L’arte della Guerra“, Sun-Tzu esprime un concetto fondamentale per il generale vittorioso: “Se conosci il nemico e te stesso, la tua vittoria è sicura.”
Ignoriamo se Chris Paul abbia mai letto il libro del filosofo della guerra, tuttavia si può affermare con piena cognizione di causa che ne abbia istintivamente interiorizzato i concetti cardine e traslati sul parquet di un campo da basket, durante tutto il corso della sua più che decennale carriera.
Considerando una partita di pallacanestro come una guerra localizzata, la point guard dei Los Angeles Clippers è il miglior condottiero mai apparso sul parquet, capace di un controllo assoluto sia da un punto di vista emotivo che tecnico su compagni ed avversari.
Molto spesso, infatti, il ruolo del creatore di gioco o playmaker in una squadra di pallacanestro si limita a considerare solo gli aspetti più manifesti del gioco, quali ad esempio gli assist o i punti, dimenticando anche quelle sottili trame psicologiche che reggono gli equilibri degli individui in campo.
Dare palla sotto al lungo per averlo motivato in difesa, rifornire di palloni il compagno in striscia positiva o negativa per cavalcarlo o motivarlo e tante altre piccole sfaccettature di gioco che solo alcuni eletti del gioco sono stati in grado di portare all’apice, nell’ambito di un contesto di assoluta eccellenza quale è la NBA.
Il playmaker è uno dei ruoli che, nel corso dell’evoluzione del basket, ha subito dei cambiamenti radicali sia come concezione teorica sia per applicazione pratica sul campo.
Senza star troppo ad entrare nello specifico, vista la mole di argomenti che bisognerebbe trattare, ci si limiti a pensare a questo: da playmaker “old school“, quali Bob Cousy o Walt Frazier, che si scontravano con autentici dogmi tecnici del proprio tempo (mai superare la linea del tiro libero altrimenti non si ha più l’angolo di passaggio) e limiti posti dall’immaturità del gioco (il tiro da 3 fu introdotto nel 1979 e fino ad un certo periodo era il gioco sotto canestro a essere privilegiato) si è arrivati ad autentiche macchine di morte sul perimetro, dotate di range di tiro e capacità realizzative mostruose, che hanno abbandonato i dettami del playmaking classico (Allen Iverson e Steve Nash ne sono l’epitome).
Viene da se, quindi, che le point-guard della NBA attuale nulla abbiano da spartire con quelle che le hanno precedute, se non retaggio e posizione in campo, perché differiscono totalmente per approccio alla partita: avreste mai immaginato John Stockton fare una cosa del genere ?
Date queste premesse, la prestazione di Chris Paul da 20 punti-20 assist-0 palle perse contro i Pelicans che valenza può avere, a livello storico, nel mondo delle point-guard ?
Guardando il video qui sopra degli highlights della partita si può toccare con mano l’assurda capacità di lettura di CP3 anche in situazioni completamente diverse: qui legge che il difensore passa sotto il blocco e tira da 3, qui legge il taglio del lungo a canestro e lo serve per sfruttare il mismatch, qui sfruttando un doppio blocco scarica in penetrazione con un gioco di prestigio per la schiacciata di DeAndre Jordan (con buona pace dell’angolo di passaggio dopo la linea del tiro libero).
Tutto questo senza mai far venir meno la pressione difensiva sul giocatore da marcare, al contrario di altre point-guard di un certo livello quali Stephen Curry o Damian Lillard, a dimostrare un approccio universale alla partita su entrambi i lati del campo.
Le statistiche difensive di Chris Paul sono infatti nella parte alta della NBA: il giocatore medio ha contro di lui la possibilità di segnare un tiro da 3 pari al 37.9% su 3.7 tentativi a fronte di un usuale 35.4% se smarcato e del 51.9% su 5.7 tentativi rispetto all’usuale 49.4% da 2 (tenendo conto però dell’altezza di CP3 e del fatto che le statistiche sono inficiate dalla difesa di squadra).
Tutto questo fa di lui la point-guard forse più efficiente ai due estremi del campo, per la versatilità e la capacità di fare più cose all’interno della partita.
Per le ragioni sopraesposte, Chris Paul rappresenta uno dei più alti esponenti della sua categoria in virtù della sua versatilità ed efficienza e per il gusto romantico del suo gioco, che si pone in direzione ostinata e contraria all’evoluzione del ruolo che si sta avendo in questi ultimi anni in NBA.
Indubbiamente i Clippers, come ogni anno, saranno dipendenti dalle sue condizioni di salute nel loro cammino durante i playoffs, anche perché nonostante gli infortuni l’anno scorso ha creato una cosa del genere e sarà, nel loro stesso interesse, mantenerlo più integro e riposato possibile durante la stagione.
Se però anche quest’anno fallisse il suo appuntamento con l’anello, si rischierebbe l’ennesimo genio cestistico, talentuoso e innovatore, fermato alla soglia della consacrazione dal destino e dalla sfortuna.
E farebbe maledettamente male.
Gioco a pallacanestro da quando ho 5 anni e mi piacciono i libri scritti da gente morta almeno un secolo fa. Per il resto tutto bene.
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