Le Finals NBA dello scorso anno possono essere definite come quel topos che in ambito narrativo viene definito agnizione, l’improvviso e inaspettato riconoscimento dell’identità di un personaggio, che determina una svolta decisiva nella vicenda narrata.
Dopo la leggendaria annata di Golden State (con il nuovo record di vittorie nella singola stagione) merito di un sistema di gioco che sembrava non avere rivali né risposte da opporre, nessuno avrebbe scommesso i canonici two cents su un esito diverso dalla vittoria del campionato da parte della franchigia della California.
E tutti, colpevolmente, hanno dimenticato il 23 di Cleveland, LeBron James, e le motivazioni che lo avevano riportato nella franchigia che per prima lo aveva scelto al momento del draft: il figliol prodigo (e discretamente talentuoso) tornato per portare Cleveland sul tetto del mondo.
Il Gioco, prendendo spunto da queste premesse, ci ha quindi regalato una delle serie finali più spaccacuore e ricca di eventi e sottotrame mai avvenute nella storia, con un epilogo che in termini di pathos e bellezza sarà difficile eguagliare negli anni futuri.
Ma il passato è passato e siamo alle porte di una nuova stagione, con alcuni interrogativi che inevitabilmente punzecchiano il nostro cervello.
Quanto hype possiamo attenderci da una stagione imminente, che deve scontrarsi con quanto successo l’anno scorso?
Ci sono giocatori, squadre o avvenimenti capaci di titillare il nostro cuore, facendoci spasimare per un nuovo inizio ?
Questa preview senza pretese analizzerà alcuni pro e alcuni contro della nuova stagione per meglio valutare il contesto di partenza; la scelta di quali siano i pro e i contro è assolutamente personale.
I ritiri di Duncan e Garnett dello scorso anno sono stati alcuni degli ultimi colpi alla vecchia guardia NBA, ampiamente previsti, ma inevitabilmente dolorosi.
Per gli appassionati di lungo corso della lega, l’idea di una stagione intera senza KG (fisicamente in declino già da un paio di anni) o TD (il cui calo fisico veniva sublimato con la tabella e doti trascendentali) sarà inevitabilmente triste e dolorosa, non solo per una mera componente affettiva e sentimentale, ma anche di gioco.
In un’era in cui predominano lo small ball e i 3&D, la presenza di due grandi vecchi come Tim Duncan e Kevin Garnett, comunque funzionali e integrati all’interno dei nuovi sistemi di gioco finché il fardello dell’età non è divenuto troppo gravoso, dava un fascino vintage e rassicurante.
Il gioco poteva pure evolversi e cambiare, ma loro erano sempre lì, a ricordarci quel che era stato e cui si era inevitabilmente legati.
Rimane solo il cigno di Wurzburg, Dirk Nowitzki, ultimo baluardo capace ancora, a 38 anni e passa, di ammaliare i nostri cuori con quel tiro a obice e un’assoluta immarcabilità; ultimo protagonista di una generazione NBA quasi del tutto scomparsa.
Nella lingua greca antico esisteva una parola capace di definire al tempo stesso sia un veleno che un antidoto: pharmakon.
Questa parola è in grado di racchiudere perfettamente le due valenze che ha avuto Kevin Durant per i Golden State Warriors, pre e post trade.
Sul trasferimento e la decisione di KD di abbandonare l’Oklahoma, tanto inchiostro è già stato sparso e non c’è la necessità di parlarne ulteriormente.
È indubbio però che la sua acquisizione da parte di Golden State sia un perfetto caso di mitridatizzazione: la franchigia californiana ha assorbito il veleno al suo interno e sviluppato efficaci anticorpi, aggiungendolo alla propria causa.
Con la sua atipicità strutturale e tecnica, un 2.06 mt che abbina tiro perimetrale e gioco in post, l’anno scorso Durant fu l’unico capace di far saltare il banco del sistema di gioco di Golden State, creando dei mismatch mortiferi per la difesa di Coach Kerr e una serie playoff decisa solo in gara 7 (con Oklahoma in vantaggio anche 3-1 durante la serie).
L’uscire fuori dalla comfort zone dei Thunder per Durant rappresenta indubbiamente un azzardo, ma vedere quello che potrà combinare in un sistema rodato e zeppo di talento come i Warriors può solo lustrare gli occhi degli appassionati.
L’immagine di LeBron James, che con una stoppata epocale sancisce la vittoria dei suoi Cavs nelle Finals, diverrà di certo un’immagine iconica di questo sport nonché l’epilogo di una bellissima favola di riscatto e rivincita.
Idolatrato, odiato, amato nuovamente e glorificato; questi sono gli stati umorali che il tifoso medio di Cleveland ha avuto nei suoi confronti da quando LBJ ha calcato i parquet NBA.
Tornato dopo The Decision per portare la franchigia a una grandezza che aveva promesso sin dal suo arrivo, LeBron vendica la sconfitta dello scorso anno (a opera sempre di Curry e compagni) nella maniera più dolorosa possibile per i suoi avversari: sconfiggendoli in gara 7 nell’anno del record di vittorie in stagione, con una prestazione abbacinante.
Una vendetta da villain consumato, come nei migliori film Hollywoodiani.
Si sa per certo che “vincere richiede talento, ripetersi richiede carattere” e che il 23 di Cleveland di carattere ne abbia fin troppo, ma quell’aura di magia e quel senso di attesa per la storia sono svaniti con il conseguimento dell’obiettivo dello scorso anno.
E quel senso di estatico rapimento nell’osservare la leggenda nascere sotto gli occhi è inevitabilmente venuto meno, con vivo rammarico.
L’affaire Durant, oltre a mobilitare schiere di tifosi nel culto pagano di bruciare feticci del proprio ex-idolo, ha avuto un discreto impatto sulla gerarchia di squadra dei Thunder, con l’assurgere di Westbrook a Líder Máximo (data anche la sua reazione dopo l’approdo di Durant a Golden State).
Da quando il duo Westbrook-Durant ha visto la luce, qualsiasi appassionato medio ha cercato di dirimere la questione sulla presunta incompatibilità fra i due, nonostante sia lui che lo stesso Durant abbiano sempre ribadito di avere un rapporto che esulava il solo ambiente professionale.
Pare che quest’ultimo abbia deciso di andare via dai Thunder, anche per l’incertezza sulla permanenza di Wetsbrook quest’estate.
Le etichette che Russell si è visto affibbiare nel corso della sua permanenza a Oklahoma sono infinite e spesso intercambiabili nell’arco di una o due partite, a seconda del risultato finale: mangiapalloni, accentratore, complemento perfetto, giocatore efficiente.
La dipartita di Durant cambia però completamente le carte in tavola, consegnando le chiavi dell’attacco dei Thunder in mano a Westbrook che, quasi sicuramente, approccerà l’imminente stagione in maniera molto più belligerante del solito, assaltando all’arma bianca qualsiasi difesa tenti di frapporsi fra lui e il canestro.
Difese NBA siete avvisate, c’è un nuovo sceriffo in città ed è un cannibale.
Dopo la scorsa stagione il giudizio sui Golden State Warriors è necessariamente in sospeso, pur essendo attualmente la più forte squadra della NBA.
La squadra che non poteva essere battuta ha perso le finali NBA, dopo aver dimostrato un’assoluta onnipotenza cestistica nel corso del campionato, con un record di vittorie in stagione regolare che parlava chiaro: 73-9.
Quando i Bulls infransero il precedente record nel 1996, vincendo poi il titolo, Ron Harper coniò uno slogan calzante:”72-10 don’t mean a thing without a ring” che sostanzialmente è il passo che è mancato ai Warriors lo scorso anno.
Scrivere un record del genere e poi mancare l’obiettivo finale è uno di quei colpi che lascia il segno nella psiche di giocatori e ambiente, cui è difficile reagire anche per professionisti di questo calibro.
Certo, aver pescato Durant dal mazzo aiuta e indubbiamente tutti si aspettano una stagione alla Golden State, di Golden State; forti di un sistema di idee e gioco che difficilmente può essere scalfito.
Il vincere un anello quest’anno sarebbe in un certo senso un riparare a una mancanza assolutamente impronosticabile dello scorso, oltre che un passo obbligato da compiere in virtù della loro forza e del peso del loro gioco all’interno della NBA attuale.
Da che parte la si voglia vedere, Golden State ha addosso una grande pressione (forse addirittura maggiore dello scorso anno) e tutta la loro stagione si giocherà sulla capacità di reazione di staff e giocatori.
Qualsiasi nuova stagione NBA porta con sé un discreto carico di imprevedibilità e scommesse.
Giocatori in cerca di conferma, veterani all’ultimo giro di giostra e promesse uscenti dal draft; tutte queste variabili rappresentano delle vere e proprie mine vaganti all’interno della singola stagione, capaci di rappresentare fortuna o sfacelo per qualsiasi squadra.
La stagione 2016 non si era ancora aperta e già si profilava uno dei draft più attesi degli ultimi anni, dove a contendersi le prime due posizioni si avevano giocatori con tutti i crismi dei cosiddetti Franchise Players: Ben Simmons (Philadelphia 76ers) e Brandon Ingram (Los Angeles Lakers).
Con buona pace di tutti, Simmons ha pensato bene di infortunarsi al piede quasi immediatamente (il rientro è previsto al momento per Gennaio) e quindi il solo Ingram avrà, almeno nella prima parte della stagione, i riflettori puntati addosso.
Oltre però a questi neonati di belle speranze, molti altri giovani scalpitano in attesa della nuova stagione attendendo di mostrare al mondo i progressi fatti e di portare le loro squadre sempre più in alto.
I Lakers con D’Angelo Russel e Julius Randle con un coach finalmente capace nella persona di Luke Walton, i Timberwolves con Karl-Anthony Towns (capace di questa roba qui) e Andrew Wiggins, i Jazz con un Exum finalmente sano e con un core giovane pronto a un salto di qualità atteso da troppo tempo, i Bucks con Antetokounmpo, Jabari Parker e il giovanissimo Thon Maker (già al centro di un caso mediatico per la sua età effettiva) decisi a sparigliare le carte in tavola nella Eastern Conference e i Boston Celtics di coach Brad Stevens, che da underdog di chiara fama punta a diventare un allenatore NBA di prima fascia.
Che diventino superstar o onesti mestieranti, al momento le fortune delle franchigie di appartenenza passano per le mani di questi personaggi e sarà dannatamente eccitante vederne gli esiti.
Gioco a pallacanestro da quando ho 5 anni e mi piacciono i libri scritti da gente morta almeno un secolo fa. Per il resto tutto bene.
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