Dopo anni di gavetta, fatti di parti minori nel mondo dell’audiovisivo in svariati paesi, come l’Italia, il Belgio e soprattutto l’America, Andrea di Stefano riesce a girare e a sceneggiare il suo primo film. Stiamo parlando di Escobar: Paradise Lost, uscito originariamente nel 2014, ma arrivato nelle sale italiane solamente nell’agosto di quest’anno.
La maggior parte della critica cinematografica gli ha dedicato recensione tiepide e mai troppo severe, questo perché, come accennato sopra, il regista non era di certo alle prime armi. Sicuramente, ad averla resa più rigida nel giudicarlo, è stato anche l’involontario quanto inevitabile confronto con Narcos, serie uscita su Netflix quasi contemporaneamente al film; a causa delle uscite tanto ravvicinate dei due prodotti, infatti, Escobar ha forse deluso più del dovuto.
In una Colombia apparentemente tranquilla, Nick (Josh Hutcherson) è un ragazzo canadese che si è stabilito a Medellín con il fratello per dare lezioni di surf. In breve tempo, Nick conosce Mary, una ragazza del luogo – ma dall’inglese impeccabile – che lo introduce a suo zio, il trafficante di droga Pablo Escobar. E i difetti iniziano proprio a partire da questo personaggio cardine: a rappresentarlo c’è un Benicio del Toro che risulta totalmente fuori contesto. Alle spalle ha sì brillanti interpretazioni da criminale (per citarne alcuni: The Snatch, I soliti sospetti e Sicario), ma per un personaggio così iconico ci vuole il physique du rôle, non basta avere la pancia gonfia e un paio di baffi. Per questo motivo, in realtà, è da biasimare non tanto l’attore quanto il regista, che ha inquadrato nel modo sbagliato il personaggio. Al contrario la famiglia Escobar, che circonda i tre personaggi principali, è ben collocata nel contesto, e oltre a descrivere correttamente la mentalità malavitosa reprime subito (e in modo molto scorsesiano) la realtà di Nick, per sostituirla con la propria, molto più ambigua e criptica. Tutto questo funziona grazie ai netti stacchi di scena: introduzione alla famiglia, promessa di matrimonio, lavoro. Purtroppo, però, questa non è una scelta stilistica da attribuire a Di Stefano, dato che è il primo e ultimo guizzo di regia che è possibile scorgere nelle quasi due ore di durata della pellicola.
Narcos ha alzato – e non di poco – le aspettative del pubblico, invogliando moltissimi potenziali spettatori a vedere Escobar, spesso addirittura portandoli a pagare il biglietto del cinema. Spettatori che, probabilmente, sono stati abituati troppo bene dalla serie, principalmente per due motivi. Il primo è il fantomatico realismo magico che la serie trasuda, l’altro è l’interpretazione magistrale di Wagner Moura (decisamente superiore a Del Toro), che con la sua gamma di espressioni facciali e una grande intensità nello sguardo ricorda a tratti il Marlon Brando de Il padrino. Un’altra reazione comune, oltre alla delusione, è un lieve senso di inganno: in locandina c’è Escobar. Il film porta il nome di Escobar. La trama si incentra su di una coppia di innamorati il cui futuro è minacciato da Escobar. Tuttavia, Escobar non è (quasi) mai presente, salvo poi assumere il ruolo – totalmente ingiustificato – di deus ex machina.
Per riassumere, Escobar non è un prodotto riuscito. È una storia d’amore decontestualizzata senza alcun motivo, con un errore di casting clamoroso, senza contare che metà della popolazione colombiana sembra avere un CPE in inglese. Tra tutti questi difetti, però, l’errore più grande commesso dal regista è il non aver trovato un’identità cinematografica al film. Nonostante questo sia il suo esordio dietro alla macchina da presa, è difficile sperare che in futuro la situazione migliori.
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