Primo Giorno – Eccolo qui, sto Giappone
Dopo il terribile limbo del volo intercontinentale (13 cazzutissime ore) da solo, passato di fianco allo stereotipo del nerd giapponese, un bel po’ più sfigato del corrispettivo italiano, inespressivo e intimorito, l’emozione di essere finito più o meno nella parte opposta del mondo è mitigata dal rincoglionimento da jet-lag e sonno (oh, non riesco a dormire da seduto, non scherzate che è una brutta sfiga). Alla dogana aeroportuale la stanchezza non placa però il mio occhio critico e osservatore (*inserire risate preregistrate), che individua al volo due fenomeni che avrò modo di approfondire in seguito: la bizzarramente elevata percentuale di impiegati nipponici che indossano le mascherine (sì, ammetto di aver pensato “come nei manga!”) e l’imbarazzante discrepanza tra l’efficientissima e militaresca fila degli autoctoni e quella approssimativa e svogliata degli italiani.
Bene, varco un pelo intimidito i controlli di sicurezza per salutare Tonic e Benjamin che mi aspettavano; l’ultima volta che eravamo insieme eravamo sbronzi in qualche pub di Galway, quindi un po’ di emozione c’è, ammettiamolo, nonostante il sonno. Arrivano subito altre scoperte che avrò modo di approfondire in seguito: le mini-stanze per i fumatori (asettiche e alienanti, ma civili e comode) e un’afa fottutamente persistente appena messo un piede fuori dall’aeroporto del Kansai (che è la regione che comprende Osaka e Kyoto, oh, mi tocca spiegarvi tutto). Tonic si è fatto prestare dal suo migliore amico Joji, che avrò modo di conoscere poi, un’Alfa Romeo con guida a sinistra, forse per farmi sentire a casa.
Non è che ci riesca granché, visto che il panorama della periferia di Osaka non è né bello né brutto, ma comunque ben diverso dalle metropoli europee che mi vantavo di conoscere: bizzarre costruzioni industriali che si fondono senza soluzione di continuità a grattacieli e ruote panoramiche buttate a cazzo tra un palazzone e l’altro. Molto poco verde, mia mamma non apprezzerebbe.
Usciamo dall’autostrada e subito arriva un’altra serie di shock culturali: il vigile urbano che fa defluire il traffico con bandierina e fischietto non si gratta pigramente le pudenda come nel caso delle controparti italiche, ma si inchina urlando qualche formulario di scuse quando passiamo, come se fosse colpa sua. Ci fermiamo a far benza e l’indaffaratissimo inserviente pulisce freneticamente i vetri, svuota il posacenere, recita il suo corollario di ringraziamenti e, non contento, ci aiuta a far manovra e a rimetterci in strada e saluta inchinandosi. “Wow, just like Initial D!” (cazzo, basta con i paragoni con gli anime).
Percorrendo un quartiere residenziale per arrivare a Itami, il sobborgo periferico a nord di Osaka dove pernotterò per gran parte delle due settimane successive, noto che l’effetto straniante dell’architettura urbana osakense persiste: blocchi di cemento spacciati per condomini si alternano a templi buddisti, centri commerciali molto americaneggianti ospitano al loro esterno bancarelle di cibo da strada con tutta l’iconografia tradizionale del caso. Arrivati a casa di Tonic, con la mamma molto giapponese (cioè piccolina, sorridente, estremamente servizievole e non proprio a suo agio con l’anglico idioma) e il cagnolino, purtroppo, per niente nipponico (volevo uno shiba inu per fare delle foto, il doge va ancora forte come meme) che ci accolgono, arrivano due altre rivelazioni: la prima, prevedibile, è che anche in periferia le stanze sono minuscole, e la seconda, ben più emozionante, è che i cessi giapponesi sono davvero pieni di imperscrutabili e inquietanti bottoni. Riposarsi un attimo significherebbe farsi vincere dal sonno (sono sveglio da 24 ore) e quindi farsi fottere dal jet lag (sono le 2 di pomeriggio), quindi io e Benjamin stringiamo i denti, ci rimettiamo le scarpe e torniamo per le strade di Itami: il Sol Levante ci attende.
Raggiunta Sayaka, la ragazza di Tonic, si va a mangiare il sushi. Ora, io non disdegno il pesce ma non ho mai capito la moda del sushi, che sembra tirare sempre di più, e dalle nostre parti l’ho mangiato giusto un paio di volte, senza particolare entusiasmo. Da quel che ho capito però, in Italia ci sono i sushi a catena o gli all you can eat cino-giapponesi (e quindi molto cino e poco giapponesi) a prezzo accessibile, mentre il “vero sushi” è roba da ricconi o comunque patiti. Da quello che mi spiega Tonic in Giappone tale distinzione è ancora più marcata, con i “ristoranti seri” che ti fanno vedere tutto il rito, gli inchini e i salcazzi ma che sono accessibili solo da funzionari governativi o turisti spreconi, cioè si parla di almeno 100 carte a persona, mentre al contrario nei sushi “per la ggente” ti sfondi di pesce crudo con riso e salsa di soia per meno di 10 euro. Ciò mi ha suscitato qualche perplessità, ma dopo il cibo chimico dell’aereo mi sentivo pronto alle peggio porcate. L’affollatissimo locale dove ci ha portato mi ha subito sconvolto positivamente: c’è la catena con i piattini da saccheggiare, ma puoi ordinare direttamente da un computer a bordo tavolo ed entro circa un minuto ti arriva un “trenino” con l’ordinazione. I piattini si infilano in una buchetta e ogni 5 sul video parte una slot machine che ti dà la possibilità di vincere un ninnolo; non essendo ancora assuefatti a queste bizzarrie io e Benjamin cadiamo in adorazione della futilità tecnologica nipponica. Superata la diffidenza iniziale, anche se non riesco ancora ad addomesticare il sapore della zuppa di miso, ci diamo dentro, e in effetti il conto è sui 1000 yen a cranio, circa 8 euri. Sticazzi.
Dopo la pappatoria si parcheggia (andare verso il centro di una delle più grandi metropoli del mondo in macchina non è un’idea brillante) e ci si dirige verso la stazione. Dopo tre fermate scendiamo dal simpaticissimo e mezzo vuoto trenino locale per salire su un treno “vero”, con le prime mandrie di impiegatucoli in pantaloni neri e camicia bianca (la divisa estiva del salaryman nipponico). Facciamo finalmente capolino a Umeda, quindi nella “vera” Osaka.
Osaka è erroneamente considerata la seconda più grande città del giappone, quando in realtà tale onore va a Yokohama, che però sta a Tokyo un po’ come Monza sta a Milano.
In realtà, il concetto stesso di città in Giappone, o almeno nelle zone più popolose, è superfluo: finita una zona urbana ne inizia subito un’altra, e la campagna, montagne a parte, è dove la densità abitativa è meno densa e si trova più spesso (ma neanche troppo) un campo di riso di un Seven Eleven, però il paesaggio è comunque costellato da blocchi di cemento. Dicevamo di Osaka: lo stereotipo degli osakensi in Giappone, e pure fuori, è quello di gente rilassata e cordiale, rispetto ai freddi e “milanesi” cittadini di Tokyo. In realtà, tale paragone va contestualizzato all’interno di un ambiente sociale rigido e asettico come quello giapponese, e infatti pure gli abitanti di Osaka e dintorni mi sono sembrati più “milanesi” che “romani”. L’altro stereotipo su Osaka è che la città sia un paradiso per chi ama mangiare e bere, ma quasi un inferno per chi è più che altro interessato alla cultura o al turismo in senso stretto. Ecco, questo invece mi è sembrato abbastanza veritiero.
Te ne accorgi subito arrivati a Umeda, il centro finanziario della città; già l’attraversamento pedonale è qualcosa di un altro mondo per un provinciale che trova Bologna caotica, con un vigile fischiettante che tiene a bada centinaia di formichine impegnate a raggiungere il punto B dal punto A e qualche sparuto turista, compreso qualche raro muso bianco. La stazione di Umeda si presenta in realtà come un agglomerato di centri commerciali sparsi su più edifici connessi l’uno con l’altro. I pochi spazi all’aperto sono oscurati dall’ombra di grattacieli più o meno agghiaccianti ovunque. I centri commerciali multipiano sono a loro volta tematici; essendo noi 3 dei nerdazzi ovviamente ci dirigiamo verso quello tecnologico, che è già un mezzo paradiso ma in realtà niente di che comparato a quello che esploreremo poi. È tempo per uno spuntino, e dopo un birrino veloce (Yebisu, una bionda nipponica soprendentemente gustosa) ci spariamo un okonomiyaki, specialità locale che è… beh, da quello che ho capito, cavolo, spaghetti, carne di suino, uova e roba a piacere buttata su una piastra e fatta girare, poi guarnita con maionese e una salsa ad hoc. Sembra una porcata, ma cazzo se è buona. Dopo proseguiamo… mah, non mi ricordo dove, i centri commerciali sotterranei tendono a concatenarsi con strade pedonali coperte, poi altri centri commerciali, poi altre strade coperte… quando si dice “labirinto” si intende sta roba qua, ecco.
Tra una sovrastimolazione visiva e l’altra cala la notte e il popolo di formichine che sfreccia da una parte all’altra sembra gradualmente trasformarsi, gli impiegati vengono rimpiazzati da giovani alla moda che continuano però a scheggiare ossessivamente da una destinazione all’altra, dal negozio al chiosco al pub al karaoke al love hotel al che cazzo ne so io, tra le urla dei buttadentro. Mai una gioia, eh.
In ogni caso, in questo contesto frenetico troviamo posto in un izakaya, una via di mezzo tra un pub e un ristorante di gusto tipicamente nipponico, con tendine, musica pop-trash, e un sacco di piattini di roba fritta o grigliata. Qui provo il primo yakitori, spiedino di maiale, più altra carne di cui non ricordo la composizione e sinceramente non ci tengo molto a rimembrare, comunque alquanto appetitosa; anche in questo caso trovo i prezzi piacevolmente ragionevoli, e grazie alla formula all you can drink (che causerebbe il fallimento di molti locali in Europa) io e Benjamin iniziamo a prendere confidenza con le bizzarrie alcoliche locali, dallo hi-ball al sakè caldo. Nel mentre, Tonic si ingozza come un maiale e la magrolina Sayaka, che ha avuto la buon’anima di sopportarci finora, ci dà dentro anche lei. Altro labirinto di strade pedonali e centri commerciali, altri trenini e torniamo a Itami. Le ore senza sonno sono ormai ben più di 30, la stanchezza si fa sentire ma Tonic si sente in dovere di portarci al suo pub preferito, il Kaffe… di cui vi parlerò un’altra volta perché di quella serata non mi ricordo più nulla o quasi; tranquilli, questo simpatico localetto rimarrà una tappa fissa delle nostre deambulazioni serali.
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