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Benvenuto, Tommaso!»
Vicenzi lo salutò con la sua solita voce squillante. Salutava così tutti i pazienti che venivano a trovarlo, con la stessa tonalità e il solito sorriso visibilmente falso e preimpostato. I suoi baffetti costringevano inoltre lo spettatore a denotare le sue labbra dal contorno bizzarro, conferendo all’intero insieme del suo viso un che di grottesco e ancora più antipatico. Non proprio l’espressione ideale per chi doveva accogliere delle persone malate.
«Prego, siediti pure.»
L’ufficio di Vicenzi era una stanza spoglia come le camere dei suoi pazienti, eccezion fatta per un crocifisso e una sua foto che lo ritraeva con un libro in mano che, da quel che si poteva evincere dalla copertina anonima, aveva scritto lui stesso. In quella foto doveva essere particolarmente giovane, poiché si era viziato con un’acconciatura di capelli più lunga e sorrideva con insolito piacere. Sembrava un sorriso sincero, forse anche per dei baffi che non erano così marcati e facevano solo e unicamente un timido accenno di comparsa. Tutto il resto era un assurdo estendersi di pareti bianche sotto le quali proseguiva un pavimento color crema.
E ovviamente quel terribile odore di ammoniaca.
«Scusi se ho tardato», fece Tommaso.
«Non preoccuparti», gli rispose Vicenzi, sorridendo ancora di più. «Qui non effettuiamo appuntamenti su prenotazione, sono a totale servizio dei pazienti. Perciò non devi essere qui esattamente all’ora stabilita.» Liberò la superficie della scrivania da delle carte, riponendole in un apposito cassetto. «Allora, come hai passato questa settimana?»
«Beh… qui.»
Vicenzi fece una fragorosa risata, troppo esagerata ed immediata per essere spontanea. Tommaso aveva notato che la gente, quando si faceva una battuta particolarmente divertente e inaspettata, per un millesimo di secondo spalancava gli occhi dalla sorpresa e poi faceva seguire la risata. Vicenzi invece era partito subito in quarta, rendendo ancora più fasullo il suo tentativo di farlo sentire a proprio agio.
«Mi fa piacere di non aver perso il mio senso dell’umorismo…»
«L’umorismo è molto importante, sai? Aiuta a guardare la realtà da una certa distanza, di analizzarla e di trarne una conclusione diversa. Ma pur sempre ancorata a una minima parvenza di verità, quindi alla base deve esserci sempre uno sguardo molto attento ed indagatore. Tu sei una persona indagatrice ed attenta?»
«Non credo…», farfugliò Tommaso, ma dovette pensarci un attimo su. «Sapevo far ridere la gente, ma non ho mai fatto nessuna analisi particolare. Credo che quello che intende lei è un tipo di umorismo decisamente diverso dal mio. Io ero… sono… una persona molto più semplice.»
«Qual era il tipo di umorismo con cui facevi ridere la gente?»
Tommaso ci pensò su un attimo. «In una macchina ci sono un nero, un rumeno e un albanese. Chi è che guida?» Vicenzi fece spallucce. «Il poliziotto.»
Piccolo sbuffo da parte di Vicenzi. «Buffa…»
«No, è una stronzata. Non fa ridere. Anzi, io non ho neppure nulla contro gli stranieri. Non ho amici di quel tipo, ma non perché sono razzista o via dicendo. Semplicemente erano le battute che facevano ridere in un certo ambiente. Non importava che fossero o non fossero divertenti, facevano ridere.» Tirò su col naso. «Mio padre aveva ragione. Non ho costruito nulla della mia vita, manco la personalità. Queste battute mi divertivano solo perché erano divertenti nell’insieme in cui mi ritrovavo.»
«Beh, l’autoanalisi è un bene, Bravo!»
«Con rispetto parlando, ma… credo di essere qui proprio perché ho fatto una sorta di autoanalisi.»
«Certo, certo… ma ogni cosa deve essere necessariamente guidata. Se non la fai tramite l’aiuto di una persona che ti spinge a interrogarti verso ciò che più ti serve, rischi di perderti. Per questo necessiti di gente come me, di gente che possiede la mappa e che ti aiuti a fare i giusti passi in un mondo troppo vasto.»
«… forse ha ragione.» Ma non ne era del tutto convinto.
Il dottore fece una strana espressione soddisfatta. «E pertanto… stavi parlando ancora di tuo padre, vero?»
«Sì…»
«Ha più avuto contatti con lui?»
«Ogni tanto mi fa delle telefonate, ma non viene mai qui a trovarmi. Gliel’ho chiesto io. Non mi va di vedere nessuno. Non credo di meritare molta compagnia. Inoltre stare da soli è sicuro.»
«Intendi dire che hai paura di deludere qualcuno? Hai ancora paura del confronto con qualcuno?»
«Forse, può darsi sia anche quello.» Sentì che aveva qualcosa agli angoli della bocca, quindi se li pulì con le dita. «Credo sia però una sorta di abitudine per quando uscirò da qui, se mai vi uscirò.»
Lo sguardo del dottore si accigliò un attimo, e finalmente smise di sorridere. «In che senso?»
«Nel senso che credo che, prima o poi, potrò guarire e uscire da qui.»
«Non quello, ma il resto della frase. Perché lo stare da solo dovrebbe aiutarti?» Ora era possibile sentire un vaga incertezza nella sua voce. «Cioè, insomma… si certo, uscirai da qui. Poi però dovrai ritornare a lavorare. Riprenderai a frequentare la gente, troverai i tuoi vecchi amici e te ne farai di nuovi. Insomma, un giorno magari penserai anche di poterti fare una famiglia, e tutte quelle cose che fanno le persone. Guarire significa ritornare ad uno stadio tale che ti permetta di condurre un’esistenza normale e autosufficiente.»
«Dipende dalla malattia.»
«In che senso dalla malattia?»
«Vede, ci sono vari tipi di malattia. Ci sono quelli che, ad esempio, si rompono una gamba. Loro stanno a casa quanto basta per guarire, e una volta pronti affrontano il mondo. E il mondo non avrà nulla da dire su di loro, perché loro sono semplicemente quelli che si sono rotti una gamba. A chi non è capitato una volta nella vita? Quello che è successo a me, ed a tutte quelle persone che stanno qui dentro, è molto diverso.»
«Non è diverso. Anche loro sono persone che stanno male, che si sono ‘rotte qualcosa’, che stanno cercando in tutti i modi di guarire. Il tuo discorso non fila molto.»
«Dipende da cosa si vuole guarire.» Tommaso accennò quella che era la parvenza di un sorriso. «Un uomo che, come nell’esempio che ho fatto, verrà semplicemente ricordato come l’uomo che si è rotto una gamba. Se io incontrassi una persona e questa, discorrendo, mi dicesse di essersi rotto un arto in passato, il mio parere su di lei non cambierebbe molto. Ma quando a un uomo succede quello che è successo a me, di rompersi lì… beh, è difficile che le persone abbiano una particolare opinione di lui.» Tossì. «Un uomo non è quello che ha realizzato. Un uomo è semplicemente l’eco del proprio fallimento. Maggiore è il suo fallimento, maggiore è il ricordo allegato ad esso che la gente avrà di lui. Quindi, se il mondo mi ricorderà solo e unicamente come quello che un tempo è impazzito, perché devo combattere così tanto per uno stato di vita sociale che non potrò mai più raggiungere? Perché devo interagire con la gente se quello che mi aspetta fuori è solo solitudine e disprezzo? A che serve maturare se chi ci sta intorno non riesce a fare lo stesso insieme a noi?»
Tommaso si accorse che aveva finito quel discorso urlando. Gli si stavano inumidendo gli occhi e sentiva una strana pressione alla gola. Si guardò le mani, il giallo al centro dei calli sembrava brillare di luce propria.
«Tommaso…», disse Vicenzi, cercando di essere rassicurante, quindi senza sorridere. «Non puoi dare per scontato che tutti la pensino così. Non bisogna ragionare per assoluti, sia nel valutare il singolo che la comunità.»
«Io ne facevo parte. So bene come ragiona la gente come me… come il me del passato…», abbassò la testa e pianse. «Non vedo soluzioni. Se questo è quello che mi aspetta una volta fuori da qui, che senso ha guarire?»
«E sentiamo, cos’è che vorresti in realtà?»
Tommaso alzò la testa. Delle piccole lacrime gli sgorgavano dagli occhi e in faccia era visibilmente impallidito. Se le asciugò con un rapido gesto delle mani e riprese a fissare Vicenzi.
«Scomparire…», disse Tommaso. «Mi basterebbe solo quello… scomparire…»
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