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Davide era solo, al tavolo. Sembrava che nessuno avesse più voglia di giocare con lui. Mischiava le carte con aria assorta, quasi ostentando la tecnica professionale che aveva imparato.
«Uno il suo mestiere deve saperlo fare al meglio – pensava – Anche se non era nato per questo».
Un ragazzo biondo entrò in quel momento. A guardarlo in faccia, sembrava distrutto. Aveva gli occhi vacui e profonde occhiaie. Indossava vestiti sicuramente costosi, pensò Davide ad una prima occhiata, ma erano tutti spiegazzati e sciupati, come se fossero stati indossati per parecchi giorni di seguito. Il ragazzo si avvicinò al tavolo del blackjack trascinando i piedi. Sarebbe stato anche un bel ragazzo, se non fosse stato così disfatto.
«Posso giocare?» si rivolse a Davide in italiano.
«Certo» rispose Davide, e aspettò che il ragazzo facesse la sua puntata.
Cinquanta euro.
Davide gli diede la prima carta. Era un sette.
Davide aveva un asso.
«Fanculo» sussurrò deluso il giocatore.
«Assicurazione?» gli chiese Davide.
«No, lascia stare».
Poi un tre. Il ragazzo chiamò un’altra carta. Era un dieci.
«Venti» disse Davide, poi prese la propria carta. Donna di cuori.
«Ventuno» disse Davide di nuovo, e ritirò impietoso la fiche da cinquanta del ragazzo.
Quello, impassibile, puntò di nuovo cinquanta.
Asso.
Davide aveva un tre.
Un sette per il ragazzo.
«Diciotto» disse Davide, e poi iniziò a tirare le carte per il banco.
Sei di fiori, altra donna.
«Diciannove» disse.
E ritirò di nuovo la puntata del ragazzo.
Per la terza volta, l’altro mise cinquanta euro sul tavolo.
Figura per lui, asso per Davide.
«Carta» disse il ragazzo. Sette.
«Carta».
Donna.
«Ventisette, sei fuori» disse Davide, gli ritirò le carte la puntata, e si sentì dispiaciuto.
Il ragazzo lo guardò con occhi inespressivi.
Davide sapeva che il croupier non doveva mostrare segni di umanità verso i giocatori, ma ormai nel casinò non c’era quasi più nessuno.
«Perché hai chiamato ancora? – disse sottovoce – Con diciassette…»
«Tu avevi l’asso – rispose l’altro – E poi, avresti preso tu la donna. Avresti vinto comunque tu».
Poi fece per buttare altri cinquanta euro sul banco.
Davide lo fermò. «Non è la tua serata – gli disse – So che non dovrei, ma ti consiglio di non giocare più».
«Sono sfortunato, tu dici, eh? – rispose l’altro – Va bene, uomo delle carte, farò come dici tu. Però, se permetti, con questi soldi che mi sono rimasti, ti offrirei da bere».
Davide restò interdetto.
«Ti aspetto qua fuori. – disse l’altro – Quando hai finito, mi trovi lì vicino alle scale. Che sia tra mezz’ora, tra un’ora o tra due, io sarò lì»
«Va bene. Comunque io mi chiamo Davide».
Gli tese la mano.
«Piacere, Davide, uomo delle carte. Io mi chiamo Ludovico e sono un uomo sfortunato. – rispose l’altro, stringendogli la mano. – Almeno, per stasera, e questo l’hai detto tu. E io di te mi fido».
«Almeno per stasera…» sussurrò Davide, e continuò a mischiare le sue carte, mentre lo vedeva andare via.
Per un istante ebbe l’impressione di aver trovato un amico, qualcuno con cui parlare, almeno per quella sera. Non aveva più avuto amici con cui confidarsi, da quel giorno.
Certo sapeva che non sarebbe mai più stato con i suoi amici del liceo, ormai era tutto diverso. Quell’idea di sentirsi davvero parte di un gruppo. Di contare qualcosa, avere qualcuno che fosse sempre pronto ad ascoltarti. Se n’erano andati, dopo Valerio, tutti quanti. E lui aveva provato a cercare una risposta nella filosofia e nei libri, senza trovarla. Aveva tentato, ma solo vagamente, senza impegno, di trovarla anche nelle ragazze, una risposta. Ed anche qui, senza trovarla, fino a che aveva incontrato Sara. Il suo arrivo , lui l’aveva interpretato come qualcosa che gli avrebbe cambiato la vita.
Finito il turno, Davide uscì dal casinò con la sua solita giacca a vento blu notte, i jeans consumati in fondo, l’andatura ciondolante. Finalmente si sentiva di nuovo se stesso. Vide Ludovico seduto sulle scale, intento a fumare una sigaretta. Subito dopo, Ludovico gettò il mozzicone giù dalle scale. Poi si frugò in tasca, trovò il pacchetto. E se ne accese un’altra.
«Ehi». Gli si avvicinò
«Uomo delle carte, ciao. – disse l’altro voltandosi. – – Prima eri tutto elegante, lì dentro. Ora quasi non ti riconosco».
«Adesso non sono più l’uomo delle carte – pensò Davide – sono io e basta».
Si sedette sulle scale accanto a lui. Guardò giù, verso la piazza.
«Vuoi una sigaretta?» gli chiese Ludovico.
«No, io non fumo». Dentro di sé pensò, con un sorriso, alle sigarette fumate per farsi vedere, da ragazzino.
«Stasera io ho perso – disse Ludovico – perché si vede che è così che doveva andare».
Davide non capiva dove volesse arrivare.
«Io ne vedo tanta, di gente là dentro – disse – e non sono ancora riuscito a capire se le carte escono in un modo perché è così che deve andare, o se escono veramente tutte a caso. Ci ho pensato talmente tanto senza trovare una risposta, che alla fine ho smesso di pensarci».
L’altro lo guardò. «Tu hai la testa grossa – disse – Devi essere uno che pensa tanto».
«Troppo. Anni e anni a studiare filosofia, mettendo la mia passione davanti al prospetto di un lavoro remunerativo, a capire cosa sono la logica e la razionalità, e alla fine guarda dove mi sono ritrovato: a lavorare in posti dove l’ostentazione del lusso la fa da padrone, e dove la gente punta soldi in maniera illogica su carte, numeri e colori che escono completamente a caso. La vita è strana, eh?»
«Hai studiato filosofia?»
«Io mi sono laureato in filosofia qualche anno fa – rispose Davide – con il massimo dei voti».
L’altro lo guardò, non sapeva cosa dire. «E cosa ci fai al casinò di Montecarlo a fare l’uomo delle carte?»
«Oh, è una lunga storia. Ho conosciuto la mia ragazza in un casinò. Ma uno piccolo, sfigato, in un hotel in vacanza. E sono rimasto talmente affascinato da quel posto che alla fine ho deciso, quasi per scherzo, di iscrivermi a un corso per diventare croupier. E poi…»
«Ma Montecarlo, voglio dire».
«È che mi sono prefissato di cercare di arrivare a lavorare solo in posti importanti, conosciuti. Quest’anno ho fatto tutto il periodo delle vacanze di Natale. Ora sono ancora qui perché mi hanno chiesto di rimanere altre tre settimane. Lo so, non sono un tipo da Montecarlo, ma penso che uno, il proprio mestiere debba farlo al meglio. Anche se non era nato per questo».
«E tu non eri nato per questo?»
«No, io no – disse Davide, ancora – Io ero nato per i miei libri, per la mia chitarra, che ora non suono più, e per i miei pensieri. Ed ero nato per starmene a casa mia. Ho paura di prendere gli aerei, di spostarmi. Adesso per lavoro, un po’ sono obbligato. Tu penserai che il mio sogno sia andare a lavorare a Las Vegas. E invece no, io là non ci andrei mai. Gli Stati Uniti sono troppo grandi per me, troppo diversi. Ora mi sposto un po’, ma sempre di poco. Per fortuna la mia ragazza viene sempre con me».
«Tu che ce l’ hai una donna…» sussurrò l’altro, gettando l’ennesima sigaretta ed accendendone subito un’altra.
Davide tacque.
«…io ho voluto partire da solo, le ho detto di non seguirmi».
«E adesso pensi che sia stato uno sbaglio?» chiese Davide, e un attimo dopo si pentì di averlo detto.
Ludovico lo guardò, inebetito. Forse non si aspettava una domanda del genere.
«Sì, ma ormai è tardi – disse – nel mio sconfinato egoismo, ho scelto di giocare la carta sbagliata. C’era una sola stella che potevo seguire per dare ancora un senso alla mia vita fatta di sprechi. Ed era lei. E io le ho detto che dovevo andare avanti da solo».
Smise di parlare, guardò Davide per un attimo. «Hai capito, uomo delle carte?»
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