Si è già parlato di quanti titoli sia pieno il mercato videoludico che attendano solo un sequel.
Giochi innovativi sotto molteplici aspetti, per la loro epoca, desiderosi di vedere le loro potenzialità applicate degnamente in un erede diretto.
Ed è frustrante invece pensare quanti sequel assurdi e orribili i videogiocatori abbiano dovuto giocare; nati dalle più belle premesse e dai più alti concetti, ma che hanno dato alla luce una progenie fatta di bug, IA scadente e trame rivedibili.
Molteplici possono essere le motivazioni che spingono le Software House a rilasciare simili obbrobri (economiche in primis) ed è indubbio che il mercato sia saturo di questi figli degeneri.
Andremo ad analizzare, quindi, alcuni fra i più memorabili flop degli ultimi anni.
Seguito dell’acclamato primo capitolo, Dragon Age 2, pur vantando un così illustre genitore non riesce né nel gameplay né nella caratterizzazione dei personaggi (veri punti di forza del gioco precedente) a seguire la strada tracciata dal suo predecessore, fallendo miseramente nel suo intento.
Il primo Dragon Age, erede spirituale della saga di Baldur’s Gate, faceva di spazi aperti e di una possibilità pressoché infinita di customizzazione i propri punti di forza, riuscendo a ben miscelare azioni di combattimento a parti più prettamente GdR.
Nel secondo capitolo, invece, abbiamo l’esatto opposto: una netta prevaricazione della componente action sul GdR, un sistema di combattimento semplificato e sostanziali limitazioni nelle possibilità di scelta della storyline e dei rapporti tra i nostri personaggi (fra le più predefinite mai viste) oltre che la totale assenza di quegli ampi spazi visti nel primo capitolo e delle possibilità di evoluzione dei personaggi.
Bioware, quindi, fallisce completamente il proprio obiettivo, consegnando ai posteri un gioco malfatto e non coinvolgente.
Può un gioco con circa 15 anni di produzione alle spalle mancare totalmente gli obiettivi che si era prefissato ?
Mai come nel caso di Duke Nukem Forever, questo è accaduto.
La saga del biondo palestrato, che ha fatto dell’irriverenza e del linguaggio sboccato la sua fortuna, vede il rilascio di questo titolo dopo una fase di gestazione abbastanza lunga, complici problemi di tipo economico e organizzativo.
Puntando a rilanciare un personaggio amatissimo nell’ambiente videoludico nei ruggenti anni 2000, perde però totalmente la maniglia, consegnando alla storia uno dei più brutti sequel mai concepiti da mente umana.
Duke è tramutato in un supereroe new age, con una comicità sboccata assolutamente non roboante come nei precedenti capitoli, tanto da sembrare il classico bambino che dice parolacce per il solo gusto di dirle, senza nessuna attinenza o logica comica con quello che gli accade intorno.
Una orrida IA dei nemici, nonostante la presenza degli amati Pigcops, un indecente design dei livelli e svariati bug completano il mefitico quadro.
La saga di Deus Ex viene unanimemente considerata come l’archetipo del cyberpunk, capace dal suo primo titolo di creare un connubio unico fra elementi propri del genere e un RPG classico; dualità questa che ha sancito la fama della serie.
Grandi aspettative quindi erano riposte dai fan nel seguito diretto del primo capitolo, Deus Ex: Invisible War, che avrebbe dovuto proseguire la strada imboccata dal primo titolo, sfruttando proprio quelle caratteristiche che lo avevano reso iconico.
Le cose purtroppo non sono andate come previsto.
Il gioco rappresenta infatti una sostanziale involuzione rispetto al capitolo precedente, con una componente RPG quasi del tutto assente e il titolo ridotto a un mero action senz’anima.
Le possibilità infinite di evoluzione del personaggio del primo Deus Ex, l’accuratezza nei dialoghi e nella caratterizzazione dei personaggi e l’ambientazione dark e surreale sono rese malissimo, in aggiunta dei nemici governati da un’IA scadente e ad un motore grafico che risulta non essere così eccelso (per gli standard dell’epoca).
Ripetere una pietra miliare come il primo capitolo sarebbe stato certamente difficile, ma questo sequel è un completo fallimento sia nelle idee che nella loro effettiva applicazione.
Capelli bianchi, lungo giaccone rosso, spada imbevuta di sangue e di professione cacciatore di demoni.
Il primo Devil May Cry, pur se non così rivoluzionario da un punto di vista squisitamente tecnico, faceva del carisma del suo personaggio principale e di infernali e adrenaliniche sezioni di combattimento i propri punti di forza, con un concept di nemici e boss funzionale all’ambientazione e particolarmente azzeccato.
Una base solida,nonostante tutto, da cui partire per progettare un sequel quantomeno dignitoso.
Capcom invece sbaglia totalmente la progettazione del secondo capitolo della serie, pur non discostandosi quasi per nulla dall’idea originale.
Il risultato è una sorta di orrendo B-movie, con un Dante che vorrebbe sembrare sprezzante ma risulta invece azzardato e impulsivo e uno stuolo di antagonisti e co-protagonisti che non rendono né da un punto di vista visivo né tecnico.
Le meccaniche di combattimento sono l’unica componente che si salva del gioco, essendo totalmente traslate dal primo, senza alcuna innovazione particolare.
Un demoniaco fallimento per Capcom.
Il primo capitolo di The Force Unleashed ha basato la sua fortuna su 3 componenti principali: il modo in cui la Forza veniva controllata, una motivazione canonica alla nascita della Ribellione e l’introduzione di un personaggio fra i più forti dell’universo di Star Wars, addirittura temuto da Darth Fener.
Questa possibilità di giocare un personaggio non canonico, ma fortissimo e perfettamente centrato nel mondo di Lucas ha fatto letteralmente impazzire i giocatori, determinando la fortuna del titolo (che inoltre non presentava grosse pecche tecniche).
Cosa può essere andato storto nel secondo capitolo ?
Il fatto che esso non significhi niente, ma sia semplicemente un normalissimo sequel fatto per monetizzare il momento di fortuna del personaggio e della serie.
Da un punto di vista tecnico, il gioco è un clone perfetto del primo e le infinite potenzialità in termini di storia e di sviluppo del personaggio sono buttate alle ortiche per un mero guadagno sul breve termine; molto più sensato sarebbe stato magari variare il tono del sequel, cambiando protagonista o periodo storico della saga, magari in previsione di un’ulteriore uscita futura.
Insomma, a volte è necessario far riposare l’onda prima di cavalcarla nuovamente.
La saga di Resident Evil è un caposaldo del genere survival horror.
Fin dall’uscita del primo gioco, il brand ha da subito dato un forte impatto al genere, contribuendo anche alla canonizzazione di alcuni elementi che sarebbero poi diventati parte integrante di quest’ultimo.
Il solo nominare il gioco, genera nei videogiocatori una sensazione di paura e smarrimento, sensazioni che nel corso degli anni la maggior parte (ma non tutti) di questi titoli targati Capcom ha saputo darci, offrendo anche un gameplay abbastanza variegato, a dirla tutta.
Resident Evil 6, però, rappresenta veramente una brusca battuta d’arresto, segno di una brutta china presa dalla casa produttrice in cui il terrore sembra essere andato in vacanza.
Nonostante la presenza di un personaggio storico della saga come Leon, il gioco non fa paura, semplicemente, e inoltre non rappresenta neanche una vera sfida.
Enigmi di una facilità irrisoria, una mancanza di proiettili che non aumenta la difficoltà ma spinge a buttarsi nella mischia come un Rambo qualsiasi, scelte di game design atroci (con zombie dormienti e invulnerabili fino al loro risveglio).
Insomma, se Capcom vuole davvero dare nuova linfa a quello zombie che la serie sta diventando, Resident Evil 6 è il calco negativo da cui partire.
Gioco a pallacanestro da quando ho 5 anni e mi piacciono i libri scritti da gente morta almeno un secolo fa. Per il resto tutto bene.
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