Come ho tenuto a far sapere a mezzo mondo (ci ho pure scritto un libro sopra), tre anni fa sono stato in Giappone, ospitato e scortato in giro da autoctoni.
La scorsa estate, con la scusa del viaggio di nozze, ho perseverato tornando nel Sol Levante, stavolta per il più classico degli itinerari turistici: 5 giorni a Tokyo, 2 a Kyoto e 3 a Osaka più giri limitrofi. Con la differenza, rispetto a uno stronzo che scende dall’aereo e rimane sconvolto dalle mascherine e dall’apparente incapacità dei nipponici di adoperare l’anglico idioma, che sapevo già le regole del gioco. O almeno, credevo di sapere.
Queste sono le robe che ho scoperto durante il mio secondo viaggio:
impossibile vedere in qualunque altro posto nel mondo: impiegati inappuntabili che frequentano con nonchalance videoteche porno, cinquantenni estremamente inquietanti in sala giochi piazzati davanti a giochi con le loli, e così via. Ma mi ero detto: beh, sono scene che puoi vedere solo in certi ambienti. E invece stavolta ho sgamato più volte il salaryman che si legge bellamente i suoi hentai sul treno, di fianco a timide liceali che sembravano ignorarlo, o ancora meglio un’orda (letteralmente più di 50 persone) variamente composta da scolari, anziani e casalinghe che correva con lo smartphone in mano verso un punto del parco di Ueno: era apparso un qualche Pokémon raro (questo a fine settembre, mica due giorni dopo l’uscita di Go).
brutti ceffi) è un impresa non banale a causa del demenziale inquinamento acustico causato dalle cazzo di sfere. Siamo stati costretti a visitarne uno perché colti allo sprovvisto da una #bombadacqua in una zona periferica a Kyoto dove era apparentemente l’unico locale dove rifugiarsi. Ecco, se hai letto/visto un po’ di shonen e ti aspetti quindi di vedere per le strade giapponesi delinquenza adolescenziale ovunque e ci rimani quasi male quando vedi in giro solo persone tranquillissime e pacate, entrando in una sala pachinko puoi scoprire dove si nascondo tutte le facce losche. Per fortuna, sembrano troppo pressi dalla ludopatia per darti dello sporco gaijin nei denti o ordinarti di consegnare il portafogli con la katana puntata al petto. Persino il personale è inquietante: solo ragazze giovani, ma dimenticativi le commesse kawaii: sembrano tutte o zoccole professioniste, o drogate, o entrambe le cose.
erano nel Kansai e nel Kyushu, e mi sono sempre trovato meglio nelle città di medie dimensioni rispetto alle metropoli. Mi aspettavo insomma un’Osaka un po’ più grossa, caotica e costosa. Mi sbagliavo: anche al di là delle località iconiche (il delirio audiovisivo di Akihabara, l’atmosfera cyberpunk di Shinjuku, quella tradizionale di Asakusa e quella grottescamente kitsch di Odaiba), basta girovagare casualmente per le strade interne e Tokyo riesce a trovare un modo per stupirti. In particolare, la zona intorno a Ueno dove pernottavamo era un dedalo di stradine dove potevi trovare un po’ di tutto, persino l’estrema periferia dove si trova il museo Ghibli sembra più viva e interessante di, per dire, il centro di Milano (dite che non ci voglia molto?). E il bello è che tale vastità si percorre in non più di mezz’ora da parte a parte, grazie a un sistema di metro e treni ridicolmente efficiente. E non è nemmeno cara, se si eccettua qualche cifra fuori dal mondo che appare in qualche negozio oppure a una festa della birra (ma uno può dire: che cazzo ci facevi a una festa della birra a Tokyo…)
quando ti rivolgi a loro in inglese, e anche se vedono che sei un muso bianco con zaino in spalla e bermuda che sembrano gridare “NON CAPISCO UN CAZZO”, ti rispondono sciorinando un cacofonico ma inintelleggibile fiume di sillabe. Realizzato ciò, provai a sfoderare quel poco di giapponese che ho imparato dalla Lonely Planet o (argh) dagli anime, per rendermi conto che stavolta i nippo mi guardavano sconcertati, come se fossi entrato in casa loro con gli anfibi sporchi di fango palpeggiando la loro figlia minorenne come se fossi a bordo di un treno affollato, non so se per via dell’accento orribile o perché, invece di chiedere il conto, ho erroneamente proferito a un pelatino di sessant’anni “potrebbe ravanarmi sto gran paio di balle, cortesemente?”. A quel punto ho capito il trucco su come dialogare con i giapponesi: non farlo proprio. Al ristorante, indica il piatto che vuoi, e se hai richieste particolari fallo a gesti, accompagnandoli con grugniti e sospiri. Tutte le altre transizioni in cui un turista può incappare le puoi comunque risolvere con un’adeguata combinazione di “arigato”, “sumimasen”, sorrisi cortesi e sguardi da “ma lei sa chi sono io, fottuta scimmia gialla!”.
Ebbene sì, non è che abbia poi scoperto così tanta roba, ma per un infarinatura generale sul Giappone contemporaneo, i suoi luoghi, i suoi abitanti, i tasti dei cessi e i distributori di mutandine, potete sempre fare affidamento sul buon vecchio “Un Gaijin in Giappone”, su tutti gli store di ebook al prezzo di una birra piccola.
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