Passata la sbornia – festante o consolatoria – della maratona elettorale americana, tutti i cocci rimasti sul campo raccontano la storia di un verdetto che alla vigilia somigliava più ad una possibilità remota, che ad un reale scenario futuro. È la storia di Donald John Trump, il quarantacinquesimo Presidente degli Stati Uniti d’America che fino a nove mesi fa aveva il consenso di meno di un terzo del Partito Repubblicano e che l’8 novembre 2016 è riuscito nell’impresa di strappare la maggioranza in roccaforti democratiche come Pennsylvania, Ohio, Michigan e Wisconsin. Un’ascesa così rapida e asintomatica da provocare una sorta di shock cognitivo in tutti quegli addetti ai lavori – dagli analisti ai sondaggisti – che oggi si interrogano sui meccanismi che ne sono stati alla base.
Uno dei primi dati – anche se si tratta ancora di stime e non di numeri reali – che vale la pena analizzare è quello relativo all’affluenza, calcolata attorno al 56,9% dei cosiddetti elettori eleggibili (o VEC – Voting Eligible Population). Il sistema elettorale americano prevede che la possibilità di esprimere il proprio suffragio sia vincolata alla registrazione in apposite liste, quindi il numero reale dei votanti secondo The United States Elections Project si attesta approssimativamente sui 132 milioni, numero che se confermato sarebbe il più alto dal dopoguerra ad oggi. La qualità della campagna elettorale non ha quindi influito negativamente sulla partecipazione, la polarizzazione dello scontro ha anzi rappresentato una vera e propria “chiamata alle armi” per i sostenitori dei due schieramenti.
Ma come hanno votato gli americani? Gli exit poll realizzati da Edison Research e pubblicati dal NY Times fotografano una realtà complessa e a tratti contro-intuitiva. I democratici hanno sì perso suffragi nelle fasce a basso reddito, ma i dati sono ben lontani da quella rivoluzione proletaria trumpista che si dipingeva negli istanti immediatamente successivi la vittoria del magnate newyorkese. La working class, anche se non più così massicciamente come in passato, resta saldamente liberal. Più interessante è invece il dato sull’educazione scolastica: Hillary Clinton non ha potuto contare sull’appoggio delle fasce meno scolarizzate della popolazione (arrivando a perdere il 14% dei consensi tra i bianchi senza istruzione universitaria) ma ha guadagnato consensi tra quelle più colte, segno che il problema della campagna elettorale democratica non riguarda i temi, ma il linguaggio utilizzato per veicolarli.
Le donne hanno sostanzialmente votato come nel 2012, gli afro-americani si sono spostati – anche se di poco – sul GOP: il profilo politicamente scorretto tenuto da Trump è stato un tema più sentito dai media che dal Paese reale. Un dato preoccupante è quello sulla distribuzione residenziale del voto, che conferma il divario abissale tra aree urbane e aree rurali che già era costato la Brexit. I centri urbani continuano a scegliere per l’alternativa progressista, mentre tutto intorno è un fiorire di periferie e aree rurali colorate di rosso (il colore del partito Repubblicano), quadro che restituisce la sensazione di un Paese spaccato in due.
Vale la pena soffermarsi brevemente sui temi che hanno guidato la scelta dell’elettorato: se Hillary Clinton fosse stata giudicata esclusivamente per il suo operato da Segretario di Stato, avrebbe guadagnato consensi, segno che il tema della diffidenza per la sua politica estera non esiste, mentre tra quelli che considerano l’immigrazione come la preoccupazione principale, ben il 64% hanno votato per Trump.
La chiave del successo di Trump risiede abbastanza evidentemente nel tipo di racconto proposto. Ha regalato ad un elettorato sfiduciato la speranza di un Paese diverso; complice la discontinuità con la precedente amministrazione (e in generale con la classe politica americana) è riuscito a comunicare che la scelta migliore sarebbe stata quella percepita come più distante dallo status quo (ottenendo il 78% dei voti di chi considera la propria situazione finanziaria peggiorata, il 79% di quelli che considerano l’economia americana in cattivo stato e il 77% delle persone arrabbiate con il governo federale). È banale, ma una narrazione negativa è più semplice da comunicare, in particolar modo se presentata da un outsider che parla alla pancia profonda di quel Paese che avverte la necessità di ritornare ai fasti di un tempo, di restaurare il glorioso passato degli Stati Uniti d’America. Di rendere l’America grande, ancora una volta.
Le responsabilità del flop democratico sono in gran parte riconducibili ad una cattiva gestione della campagna elettorale, tanto strategicamente (il Wisconsin e il Michigan sono caduti in mani repubblicane perché abbandonato completamente o quasi dalla macchina propagandistica della Clinton) quanto comunicativamente (il racconto del “breaking the glass cealing” non ha convinto, quello del politico di mestiere che affronta il miliardario misogino si è addirittura ritorto contro). Nemmeno i sondaggisti sono esenti da colpe, per settimane hanno raccontato un Paese che evidentemente non esisteva, regalando alla Clinton in media due punti di vantaggio.
La sconfitta peggiore di tutte, però, è quella dei media, che hanno portato avanti una campagna anti-Trump con pochi precedenti nella storia degli Stati Uniti d’America (campagna, a onor del vero, patrocinata dallo stesso Trump e dalle sue dichiarazioni nei confronti dei mezzi d’informazione). Nonostante la mole di notizie e inchieste proposte da televisioni e giornali, i consensi di Trump sono aumentati costantemente con l’avvicinarsi delle elezioni , ottenendo percentuali superiori a quelle registrate dal partito Democratico in tutti i sondaggi basati sull’arco temporale in cui è stata presa la decisione di voto.
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