L’uomo inteso come essere vivente e pensante ha un grosso problema: giudica, spesso senza pensare alle conseguenze. Lo fa verso ciò che vede, sente, verso ciò che conosce (tanto, poco) o verso ciò che ha la pretesa di conoscere.
Le tre più grandi religioni monoteiste del mondo basano sul precetto “non giudicare” molta della loro dottrina, lasciando a un’autorità superiore questo compito gravoso.
De’ André (che non a tutti piace) sull’argomento scrisse una delle sue canzoni più riuscite, quella che trovate sotto.
Questa breve premessa serve per evidenziare il grosso errore di fondo, ovvero la volontà implicita o esplicita di “non giudicare”. Tutti giudichiamo, tutti. Dal primo all’ultimo, ogni istante della nostra vita, guardiamo distrattamente, osserviamo con scrupolo, ci interessiamo, ci perdiamo dietro i miraggi della nostra famelica curiosità.
Puntualmente per qualsiasi fatto di cronaca, di politica, di costume, siamo pronti a dare la nostra non richiesta opinione, a esplicitare il primo o quando va bene il secondo pensiero che ci passa per la testa, dando in pasto a un pubblico (relativamente) vasto e eterogeneo il nostro pensiero, che altro non è che un giudizio su qualcuno o qualcosa.
Ecco perché anche sul caso del giorno c’è già un’ overdose di pareri (e quindi giudizi) di esperti del costume, del web, di video condivisi, di corna, di pompini, di meme, tutti carini messi in fila e allineati nella loro banalità. A lungo (almeno per i tempi contemporanei) abbiamo “discusso” se fosse davvero necessario parlare anche qui di quest’argomento, e in caso affermativo in che modo affrontare una tematica e un fatto di cronaca così doloroso come il suicidio di una persona. Perché è bene ribadirlo e chiarirlo con forza: parliamo di suicidio, e di una persona.
Visto il preambolo iniziale non sorprende più leggere gente che pontifica e stabilisce con una leggerezza disarmante in base a proprie leggi morali condanne universali per una tizia, maggiorenne, divenuta un meme vivente per una battuta buffa e una faccia divertita durante un video porno amatoriale.
Era adultera? Era consenziente? Ha girato lei il video? Ha condiviso lei il video? Era una donna eterosessuale a cui piacciono i rapporti sessuali (cosa normalissima)? Era ingenua?
Davvero vi interessa conoscere le risposte a queste domande? Veramente fa differenza avere un movente qualsiasi o peggio ancora cercare delle attenuanti che possano aprire quello spiraglio (così facile, così semplice) in cui infilare la viscida e semplicistica frase fatta “Se l’è cercata!” con magari a corredo la chiosa consequenziale che trasforma la frase di cui sopra in una più incisiva “Se l’è cercata, ‘sta troia!”?
Quelle risposte non cambierebbero la sostanza delle cose, non cambierebbero il finale di questa storia e, punto fondamentale, non cambierebbero di una virgola il giudizio finale che i vostri preconcetti hanno già formulato.
Solo che qui non c’è nulla da condannare, se non paradossalmente proprio chi sta esprimendo i suoi giudizi.
Non è da condannare il “Web”, dito che i soliti soloni guardano sdegnati quando invece il problema è, come al solito, la Luna. Perché non è stato il “Web” a pubblicare il video online, non è stato il “Web” a creare pagine Facebook, a ironizzare, a creare un personaggio dove non c’era. Non è stato il “Web” a portare questa storia alla ribalta anche agli occhi di chi non si interessa né mai si è interessato a queste tematiche (basta fare una ricerca online, la vicenda venne trattata su molte testate, con tanto di nome e cognome sbattuti in prima pagina e la protagonista elevata a “Star”) né è stato il “Web” in seguito a ipotizzare che fosse tutta una mossa pubblicitaria atta a lanciare la carriera di una nuova pornoattrice.
Non sono da condannare nemmeno quelli che sulla vicenda, asetticamente svuotata di contenuti, hanno riso e l’hanno presa per quella che appare: una scena buffa e comunissima, come tante ce ne sono state e tante ce ne saranno, a prescindere da chi condivida cosa e perché, perché il sesso è (o meglio dovrebbe essere) anche una cosa su cui si può ridere e scherzare. Non sono da condannare e non devono sentirsi in colpa, anche se la vicenda ha avuto un epilogo imprevedibilmente luttuoso.
Esistono e sono esistiti molti casi analoghi e probabilmente grazie alla teoria dei gradi di separazione se non direttamente almeno al secondo grado conoscerete qualcuno che è a conoscenza di amici o parenti con problematiche simili, filmini amatoriali, semi-amatoriali, fotomontaggi o altre amenità: perché quindi in questa moltitudine di casi le persone coinvolte sono riuscite a andare avanti, superando la mediocrità e la dozzinale banalità del giudizio altrui mentre nel caso di Tiziana Cantone non è andata così?
Il discorso è complesso, e per forza di cose non potrà che essere impreciso e parziale.
Torniamo qualche passo indietro, e osserviamo la vicenda con il distacco che un entomologo userebbe nello studio di una colonia di termiti.
Abbiamo una donna, maggiorenne, adulta, vaccinata, forse un po’ ingenua, che gira alcuni video porno amatoriali. Mentre è con l’amante? Lo sta facendo per ripicca verso l’ex che l’avrebbe tradita? Non ci interessa né deve interessarci perché come già scritto non è quello il punto della questione.
I video finiscono sullo strumento (il fantomatico “Web”, strumento neutro), caricati da chi, come già detto, è aspetto marginale.
Seguite il discorso: non è facile discostarsi dal “sapeva quello che stava facendo” (quale che siano le condizioni di partenza volutamente considerate ininfluenti poco sopra), e un po’ di sforzo per arrivare a un altro punto di vista è necessario.
Ripeto: che abbia condiviso o meno lei il video e che sia stata o meno consenziente è ininfluente per le conclusioni finali, e soprattutto lo è stato per “la” conclusione finale (il suicidio), questo perché per raggiungere un limite tale e superarlo sono necessarie condizioni estreme.
Possiamo affermare con buona certezza che sì, molto probabilmente Tiziana Cantone sapeva quello che stava facendo, e che forse almeno in questa prima fase della vicenda fosse molto meno ingenua di quanto si pensi. Il suo grave errore è stato sottovalutare le conseguenze: a un piccolo stupido fatto, e da un piccolo divertente video (preceduto o seguito da altri) è seguita una catena di conseguenze imprevedibili, mutevoli, e nei casi peggiori affilate e cattive. Più di ogni altra cosa ha sopravvalutato la propria capacità di reazione a queste conseguenze, amplificate da un humus ambientale storicamente inadatto a stemperare e a sottacere certe deviazioni dalla morale comune.
Tiziana era di Casalnuovo, molto vicino a quella Caivano così nota alle cronache pruriginose e vergognosissime, e idealmente vicina a quella Melito, in Calabria, dove viene quasi normalizzata la situazione di stupri perpetrati ai danni di una ragazzina per 3 lunghissimi anni (dai 13 ai 16) da parte di una combriccola di ragazzi di paese (di vasta e eterogenea estrazione), con la pietosa benevolenza di un prete per cui forse la ragazzina era già troppo cresciuta per risultare interessante. Un contesto dove arretratezza, omertà, pregiudizi, gretta chiusura, continuano imperterrite a essere caratteristiche salienti, quasi caratterizzanti come parte del territorio.
Anche estendendo il contesto però la situazione per quanto mutata non era cambiata negli effetti sulla Cantone. Pare si fosse rifugiata in Toscana, cambiando pure nome, in attesa dei tempi biblici dei processi, delle decisioni, dell’oblio e di un’altra vita. Tutto inutile: restava la tizia un po’ rifatta, con gli occhioni, la donna meme identificata più con una marca di succhi di frutta che da una qualsiasi parvenza di personalità, che magari neppure aveva (non è questo il luogo né lo spazio per azzardare una qualche santificazione post mortem). Le ferite delle conseguenze le avevano scarnificato l’anima: in questo, sì, era stata radicalmente cambiata. Per sempre.
Era una donna, forse ingenua, forse peccatrice, forse adultera, forse idiota, ma soprattutto era una donna schiava di un mondo ancora spesso ancorato al pregiudizio, alla negazione delle libertà, alla risata maliziosa ma non bonaria, allo scherno, al bullismo e alla moralizzazione da salotto: anche se fosse stata consapevole, parte attiva della condivisione del/i video, adultera e totalmente fuori posto nella sua realtà non sarebbe dovuta morire per le conseguenze di un pompino.
Allo stesso modo non si può e non si dovrebbe colpevolizzare uno strumento per il fatto di veicolare una storia, né far sentire in colpa o equiparare a fantomatici assassini i fruitori del video e tutti quelli che ci si sono fatti una risata (o altro) sopra. Non si può e non si dovrebbe dire “se l’è cercata!”, né allo stesso modo pensare che tutto il genere umano maschile sia il male, gretto e schifoso solo perché alcuni ragionano (?) seguendo bassi istinti e ancor più basse tradizioni e convenzioni.
Bisogna fare un passo indietro, talvolta, e provare a ragionare a freddo: capire perché una persona, tra molte altre con esperienze similari, può arrivare a tanto; capire con lo stesso sforzo perché una volta entrata in un simile vortice senza uscita non sia stata in grado di uscirne, ferita, cambiata, completamente diversa ma viva. Capire quant’è stato il peso degli altri, quello del suo dolore, quello del contesto e della sua storia. Capire quanto le conseguenze possano essere tanto imprevedibili quanto terrificanti.
Solo dopo si potrà giudicare (perché come scritto nella premessa iniziale ci è purtroppo quasi inevitabile farlo), esprimersi in una qualche opinione sensata, più calma, più calda, più umana: perché è comunque morta una persona, abbracciando la morte come fuga e libertà definitiva (pare oltretutto dopo aver già tentato il suicido qualche tempo fa) e nessuno di noi è in grado né mai lo sarà di capire cosa le sia passato per la testa nei momenti in cui la tentazione, poi divenuta atto, era più forte, più pervasiva, e più convincente.
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