Capitolo I
Il parto e la favola
La storia sarà buona con me perché sarò io a scriverla.
(Winston Churchill)
Tre persone possono tenere un segreto, se due di loro sono morte.
(Benjamin Franklin)
La scena si apre in collina, in una notte invernale. Nubi temporalesche si sono addensate tutto il giorno sulle lande desolate di quell’angolo di Cornovaglia, e adesso pare che la tempesta sia finalmente in procinto di scoppiare. Tuoni si odono in lontananza, ma nella casetta ai margini del villaggio, poco più di quattro pareti sormontate da un tetto, vengono ampiamente sovrastati dalle urla di una donna.
Sta partorendo.
L’uomo terrorizzato al suo fianco è il marito. Henry Garden è un individuo tutto d’un pezzo. Ha visto la guerra. È sopravvissuto alla peste. Ha superato la carestia. Eppure, in questo momento, è stordito dalla paura, paralizzato dal terrore. Tutte le cose che ha visto e che ha fatto non lo hanno preparato a ciò che sta avvenendo a pochi metri da lui.
È un contadino, ha visto partorire mucche, cagne, giumente. Non è la stessa cosa.
Per Dio! Non è la stessa cosa!
L’esserino piangente ricoperto di liquami rossastri non è un vitello, né un cucciolo di maiale. È suo figlio, il suo unico erede. Adesso che è giunto in questo mondo, Henry dovrà nutrirlo, crescerlo, educarlo. Badare che sopravviva anche lui. Preoccuparsi che riceva un’istruzione decente. Far sì che alla sua dipartita gli rimanga qualcosa di cui campare.
È suo figlio, il suo unico erede. Porterà avanti il nome di famiglia. Dovrà essere sano e forte, ed è compito del padre assicurarsene. Quell’esserino piangente, pensa Henry, è ciò che resterà di me quando sarò morto. Il mio bambino.
Il terrore deve trasparire sul suo volto, perché la vecchia che sorregge il piccolo sta ghignando, nel fissarlo. La vecchia. La levatrice. La strega. Hebamme.
Sforzandosi di metter su una faccia impassibile, nascondendo il panico che lo attanaglia, Henry distoglie lo sguardo dalla scena. Quando torna a posarlo sul trio vicino al letto – sua moglie Lynn che dorme, sfinita, e Hebamme che regge il bambino – qualcosa è cambiato.
Fuori, i tuoni sono svaniti in lontananza. Dentro casa, la vecchia non ghigna più.
E il piccolo ha smesso di piangere.
È mattina quando Henry si sveglia, destato dal bussare alla porta, e quasi cade dalla sedia su cui si era pesantemente accasciato a notte fonda, chiudendo finalmente gli occhi dopo essersi assicurato che sua moglie e suo figlio stessero bene.
Quando apre, ancora assonnato, deve abbassare lo sguardo per accorgersi che di fronte a lui c’è Hebamme, in paziente attesa di poter entrare. È solo in questo momento che Henry ricorda le parole che la vecchia gli ha rivolto la sera prima: «Tuo figlio… Devo verificare una cosa, ma temo che domani al mattino dovremo parlare». E adesso eccola lì, piccola e rugosa, in piedi accanto al letto, che scuote dolcemente Lynn fino a quando questa non si sveglia dal torpore.
«Mi dispiace svegliarti così, Lynn, cara, ma c’è una cosa che devo dirti», dice. Si volta verso Henry e si corregge, aggiungendo «a entrambi». Lynn, ancora intontita dal sonno, si strofina gli occhi, sul volto giovane un’espressione confusa. «Cosa c’è, Hebamme?», mormora, la bocca impastata dopo il brusco risveglio.
«Si tratta di vostro figlio».
Queste parole bastano a destare completamente la giovane, e anche Henry si avvicina al letto con espressione preoccupata. «È quello che mi stavi dicendo ieri sera? Hai controllato?», chiede impaziente, inquieto, afferrando per un braccio la strega. Lei si divincola, infastidita. «Il bambino… È strano», dice. «Ho scrutato il suo futuro nelle tenebre», soggiunge, facendo seguire all’affermazione una piccola pausa, quanto basta per terrorizzare i due genitori, così che aprano bene le orecchie e che ciò che lei ha da dire si imprima a fuoco nella loro memoria.
«Non è come noi. Lui… rifiuterà il cibo normale», prosegue, lentamente. Mormora ogni parola con attenzione, combattendo la rochezza della sua voce anziana per far sì che ogni motto sia enunciato con cristallina chiarezza. Il padre la interrompe subito, allarmato: «È… un demone?», chiede, titubante, ma la vecchia lo mette a tacere con un gesto stizzito. «Si nutrirà di storie», conclude, con un sospiro rassegnato, come se esprimere ad alta voce la cosa servisse a convincere anche lei che ciò che sta dicendo corrisponde a verità. Come se fino ad allora lei stessa non fosse stata capace di credere a ciò che ha scorto nel buio notturno, tra le stelle, la notte precedente.
«Più gliene saranno raccontate, più ne leggerà, meglio crescerà: sarà più forte e più sano; ma se dovesse restare senza, deperirà e s’indebolirà fino a morirne». I genitori si guardano, combattuti tra la preoccupazione per le strane caratteristiche del figlio e il sollievo che non sia un mostro, un figlio del demonio.
«Cosa dobbiamo fare?», chiede infine Lynn, stringendo la mano di un Henry ancora attonito. Hebamme tentenna, incerta sul da farsi. La risposta è lì, ci ha riflettuto a lungo, ma dubita che ai due possa piacere. Solo che non le viene in mente altro.
«Nessuno deve saperlo, o lo bruceranno sul rogo», mormora a mezza voce. «Ma non potete neanche tenerlo con voi: se anche tutto il villaggio si mettesse a inventare storie, non avremmo di che nutrirlo come si deve, a lungo andare», prosegue, e la sua voce si fa sempre più incerta e flebile.
«Datelo ai monaci», esala infine, quasi inudibile.
«Appena sarà grande abbastanza, spiegategli che deve tenere il segreto, e mandatelo al monastero», continua, sotto lo sguardo incredulo dei genitori. «Lì hanno manoscritti, pergamene, gli insegneranno a leggere, potranno prendersi cura di lui».
Solo adesso Henry trova la forza di interrompere, di porre la domanda che lo sta rodendo da dentro: «Non sarà… rischioso?», chiede, e la sua voce è rotta da tristezza e incredulità.
«Sì», risponde la strega. «Ma è l’unico modo».
È in questo momento che il pianto del bambino interrompe il discorso: il piccolo è sveglio e ha fame. La giovane Lynn lo prende tra le braccia e lo culla dolcemente, ma il suo sguardo interrogativo corre alla vecchia, in cerca di consigli.
Hebamme si avvicina dolcemente. Un dito secco e rugoso accarezza la fronte del bambino, mentre mormora, teneramente: «raccontagli una favola».
Il bambino aveva un nome: Tristan. Tristan Garden, come suo padre. E questo è l’inizio della sua storia. O almeno, è così che me l’ha raccontata mio padre, Henry Garden. Sì, perché quel bambino ero io.
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