Dopo l’esperienza di Tom à la ferme, Xavier Dolan si mette nuovamente alla prova basando la sceneggiatura del suo sesto lungometraggio – È solo la fine del mondo – su una pièce teatrale, questa volta del drammaturgo francese Jean-Luc Lagarce. Louis è un giovane drammaturgo di successo e sta morendo. L’unico motivo per cui decide di ritornare a casa dopo dodici anni di assenza è quello di informare la sua famiglia delle sue precarie condizioni di salute.
Da questo soggetto all’apparenza banale il regista tirerà fuori un’opera sovversiva e assolutamente innovativa; consapevole del suo talento, si diletta nel rappresentare le ansie e le insicurezze dei protagonisti con una sequela lunghissima di primi piani, fatti di volti carichi di incomprensione e disagio interiore. Rarissime invece le riprese a figura intera, che appaiono solo nei momenti di apparente felicità, e cioè i ricordi d’infanzia. Questa cifra stilistica estremamente innovativa punta tutto sulle espressioni, i silenzi tra un dialogo e l’altro e l’oppressione che i personaggi messi in scena provano costantemente nell’ambiente ristretto in cui il dramma viene consumato. Con questa semplice ma efficace tecnica lo spettatore riesce a penetrare nella psiche di Louis e della sua famiglia sin dalle prime scene in cui sono mostrati assieme.
Le quattro conversazioni separate che Louis avrà con i suoi parenti dividono il film in veri e propri atti. Prima con Suzanne, sorella che non ha mai avuto opportunità di conoscere o avere accanto durante l’infanzia. Si trova poi a parlare con Catherine, la timida e discreta moglie di suo fratello che, nonostante lo conosca pochissimo, sembra comprenderlo più degli altri. Suo marito Antoine invece prova a nascondere l’affetto che prova verso Louis sotto una maschera fatta di irascibilità e cinismo, che più volte si rivolterà contro la famiglia intera. È però con la madre che emergono le caratteristiche peculiari di questo regista: la voce, il trucco pesante e l’oppressione verso un figlio mai capito, anche in questo caso omosessuale. Senza dimenticare la stravagante e variegata colonna sonora, che passando da un pezzo trash inizio anni 2000 a tracce più ricercate risulta stranamente equilibrata.
Con la struttura di È solo la fine del mondo, Dolan crea una climax ascendente che raggiunge il suo picco nello straordinario finale. Questa volta non ha voluto narrare la storia di una famiglia travagliata. Ha raccontato qualcosa molto più ambizioso e sofisticato: ci mostra il fantasma di un nucleo familiare ormai disgregato che cerca di capire in cosa si è trasformato nel corso degli anni, senza però riuscirci. Questo è, come lo definisce lui stesso, il suo primo film in età adulta, e se lo avesse girato qualche anno prima non sarebbe stato così riuscito.
“Quell’estate ho riletto – o, per meglio dire, ho letto davvero – Juste la fin du monde. Più o meno a pagina sei ho capito che sarebbe stato il mio prossimo film. Finalmente ne capivo il testo, le emozioni, i silenzi, le esitazioni, l’irrequietezza, le inquietanti imperfezioni dei personaggi descritti da Jean-Luc Lagarce. A discolpa della pièce, non credo che all’epoca mi fossi impegnato a leggerla seriamente. A mia discolpa, credo che se anche ci avessi provato non sarei riuscito a capirla”
Xavier Dolan
Alla presentazione al festival questo importantissimo spartiacque per la carriera del regista canadese è stato snobbato; si spera possa essere valorizzato appieno alla prossima notte degli Oscar, dove è stato nominato miglior film straniero. In ogni caso È solo la fine del mondo ci offre un’analisi estremamente critica della famiglia, l’incomprensione che ne può derivare e l’inesorabile scorrimento del tempo. Raramente si vedono opere così complete ed intime, e la speranza è quella di poter dire lo stesso la prossima volta che ci troveremo di nuovo al cinema, per vedere di cos’altro è capace questo strabiliante ventisettenne del Quebèc.
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