Il peso diventa leggero,
a chi sa portarlo.
In questo discorso c’è tutto Shaq.
L’induzione nell’Hall of Fame per Shaquille O’Neal rappresenta il giusto riconoscimento per una carriera che non sarebbe mai dovuta esistere.
Troppo grosso, troppo pesante, troppo grande dentro e fuori dal campo: letteralmente “Larger than life”.
Eppure Shaq, questo il soprannome con cui è famoso in tutto il mondo, ha saputo tramutare questi limiti nelle basi della sua fortuna cestistica; mai prima di lui si era visto sul parquet un “settimo di tonnellata” danzare così agilmente sulle punte dei piedi, unendo tecnica e potenza così mirabilmente.
Al basket giocato Shaq ha poi saputo affiancare una simpatia ed una personalità da entertainer che gli hanno permesso di catturare il cuore dei tifosi e di diventare una personalità carismatica e totalizzante del basket del nuovo millennio.
Attore (Kazaam non guardatelo se volete preservarvi intatti), rapper, protagonista di un videogioco (Shaq Fu) conosciuto solo per la sua comica bruttezza; Shaq ha rappresentato una figura pressoché unica nel panorama NBA e mondiale e questo, combinato con la sua dominanza sul rettangolo di gioco, ha cementato la sua legacy, sancita dall’ingresso nella Hall of Fame.
Ed è paradossale come proprio questo suo discorso alla platea sia perfetta sintesi di tutta la sua carriera.
Stoppata, coast to coast e schiacciata del vostro centro adolescente tipico.
Shaquille Rashaun O’Neal nasce a Newark, New Jersey, nel 1972 con tutti i topoi tipici dell’atleta medio afroamericano: un padre disinteressato e arrestato per problemi di droga durante la sua infanzia, madre single ed un presente incerto.
Fortunatamente nella sua vita e in quella della madre, Lucille, arriva presto una figura maschile e genitoriale destinata a cambiare la vita del giovane O’Neal, il sergente Philip A. Harrison.
Proprio questi rappresenterà una figura autoritaria importantissima nella vita di Shaq: dal sergente verrà istruito al gioco del basket, ma che non riuscì a instillargli un senso della disciplina duraturo, mancanza questa che sarà il filo conduttore e ne caratterizzerà la personalità.
In questo contesto quindi il giovane pargolo cresce e muove i suoi primi passi in America e nel mondo, il sergente come militare venne stanziato anche in Germania in quel periodo, per poi definitivamente accasarsi in Texas.
E proprio in Texas, alla Robert G. Cole High School di San Antonio, Shaq comincia a essere notato per le sue qualità sul parquet.
Ad una struttura fisica imponente, misura già 2.08 cm per 113 kg cui unisce un 51 di piede, si accosta un bagaglio tecnico abbastanza limitato (non viene considerato un centro di spicco) che però associato a quel telaio fisico e a quella mobilità fa già sgranare gli occhi.
Tutto ciò sfocia nella chiamata al McDonald All American, incontro di esibizione fra i migliori cestisti delle High School, di cui sarà l’MVP, nel 1989.
Uno degli aneddoti più conosciuti della sua vita, raccontato da Shaq stesso, risale proprio a quel periodo.
Una notte di Halloween bussando alla porta di un vicino per il tradizionale ”Trick or treat!” fu malamente congedato con un ”ma vai a lavorare che sei alto 2 metri!” il che era assolutamente legittimo: peccato avesse solo 16 anni.
Mobilità, potenza, tecnica: Shaq in Progress.
Mostrate al mondo le sue qualità, bisognava ora scegliere il college dove andare (nonostante all’epoca O’Neal fosse abbastanza sottovalutato come prospetto) ed anche qui l’aneddotica shaqesca è ricca e corposa.
Papà Phil, quando era di stanza in Germania, aveva avuto modo di conoscere il coach di Louisiana State University, Dale Brown; questi aveva già incontrato Shaq nel campo militare e aveva avuto modo di ammirarne la possanza fisica, ignorandone l’età (a 13 anni era alto 1.98 cm) e rimanendone sconvolto e ammirato.
Inutile dire che al momento del recruiting universitario la scelta di coach Brown ricadde su Shaq.
Gli anni formativi di LSU saranno anni importantissimi per Shaquille, non soltanto da un punto di vista cestistico, ma anche umano e accademico.
Affinando quel campionario di movimenti in post che successivamente faranno ammattire qualsiasi difensore NBA con l’aiuto di tutor d’eccezione quali Bill Walton o Kareem Abdul Jabbar, non trascurerà mai, nel frattempo, lo studio, arrivando a conseguire la laurea durante il professionismo.
In questi anni spiccherà da subito quella personalità da showman che caratterizzerà tutta la sua carriera; dall’indossare berretti con su scritto “I am the Shaqnificent” al chiamare passi di danza hip-hop (dopo un upset contro Villanova) gli “Shaq-da-Shaq”.
Nonostante un roster di buon livello in cui figuravano due futuri giocatori NBA come Stanley Robert e Chris Jackson (conosciuto successivamente come Mahmoud Abdul-Rauf) la squadra non riesce a raggiungere risultanti di rilievo.
Shaq invece fa incetta di titoli individuali: 2 volte All-American, 2 volte giocatore dell’anno della Southeastern Conference e vincitore del premio Adolph Rupp (insieme al John Wooden award) per il giocatore dell’anno 1991.
Ma ormai la carriera universitaria di Shaq è finita ed il richiamo della NBA è sempre più forte: si arriva al 1992.
Un normale rookie nei primi due anni di NBA.
Scelto con la prima chiamata assoluta al Draft dagli Orlando Magic, l’impatto di O’Neal con la lega fu quello classico di un nuovo arrivato che fatica ad ingranare in un contesto professionistico ?
Ecco magari no.
Con delle medie allucinanti (23 punti e 13 rimbalzi ad allacciata di scarpe) viene nominato Rookie dell’anno e votato all’All Star Game (primo rookie a riuscirci dopo un certo Michael Jordan nel 1985), portando ai Magic una dote di 20 vittorie in più rispetto l’anno precedente, pur mancando l’accesso ai Playoff.
Fino al 1996 sarà leader per punti segnati (scoring leader NBA nel 1995) e rimbalzi della franchigia della Florida che porterà per la prima volta nella loro storia ai playoff, dominando nelle aree NBA e distruggendo canestri (dimostrando una potenza fisica squassante).
Nel quadriennio che lo vede ai Magic, Shaq trova il perfetto complemento in Anfernee “Penny” Hardaway (altro giocatore iconico degli anni 90) con cui crea un perfetto legame di gioco miscelando spettacolo ed efficienza.
Il duo riesce a portare i Magic alle Finals NBA nel 1995, uscendone però con le ossa rotte in 4 partite secche contro gli scafati Rockets di Hakeem Olajuwon e Clyde Drexler.
Questi primi anni nella NBA sono però interessanti, al di là dei singoli risultati, in chiave retrospettiva, per poter meglio apprezzare il pazzesco “freak” atletico e tecnico che fu Shaquille O’Neal nella lega, al suo arrivo.
Pur essendo nettamente uno dei più grandi e grossi giocatori d’area NBA, univa a ciò una tecnica individuale invidiabile e un controllo del corpo e un equilibrio impensabili per quella corporatura; gancio destro e sinistro (affinati negli anni liceali), un soffice tocco sottocanestro ed in post, capacità di alternare soluzioni di potenza ad altre di sola tecnica.
Era già presente il grosso limite dei tiri liberi che però, citando Shaq:”Me shooting 40% at the foul line is just God’s way to say nobody’s perfect“.
E con l’ingresso nella NBA inizia la lunga serie di soprannomi, autoattribuiti o meno, che lo accompagneranno nel corso della sua carriera; ad Orlando è “Superman”, in virtù della sua predilezione per il personaggio dei fumetti (dimostrata da uno dei suoi tatuaggi più famosi).
Si racconta che il problema coi tiri liberi fosse dovuto a un episodio giovanile che vede il nostro Shaq lanciarsi da un albero per volare come, appunto, Superman, ma riuscendo solamente a fracassarsi un polso, mai sanatosi completamente.
A tutto questo aggiunge, come ciliegina, la medaglia d’oro alle Olimpiadi del 1996 ad Atlanta con il Dream Team.
Most Dominant Ever, in campo e fuori.
Nell’estate del 1996 però problemi di adeguamento contrattuale e screzi con i media, oltre a un deterioramento del suo rapporto con Hardaway, portano Shaq lontano dalla franchigia della Florida verso i Los Angeles Lakers, in una “Decision” pre-LeBron.
E proprio qui incontrerà il suo partner cestistico “perfetto”(con cui instaurerà un rapporto di odio/amore) ponendo le basi di una dinastia e formando una delle più grandi coppie sportive di tutti i tempi, Kobe Bryant.
Gli anni dal ’96 al ’99, sotto la guida di Del Harris e con Jerry West come GM, sono anni di transizione e formazione per la franchigia di un core di giocatori destinati poi a dominare la NBA negli anni successivi: Derek Fisher, Rick Fox e Robert Horry (solo per citarne alcuni) vengono infatti aggiunti al roster proprio in quegli anni.
Serve però l’arrivo di Phil Jackson, ex allenatore dei pluripremiati Chicago Bulls, nella stagione ’99-’00 per trasformare questa base in una delle più forti squadre NBA di tutti i tempi.
Con Jackson sul pino, la cui filosofia zen è in grado di mediare lo scontro di personalità fra O’Neal e Bryant, e un roster amalgamato e coeso nel sistema della Triple Post Offense (il cosiddetto attacco a triangolo) grazie a Tex Winter, la storia dei successivi 3 anni di NBA è scritta.
La vittoria consecutiva di 3 anelli NBA (il cosiddetto Three-Peat) dal 2000 al 2002 consacra quella squadra come una delle più forti di tutti i tempi, consegnando alla storia del gioco momenti indimenticabili: l’alley oop nelle finali di Conference del 2000 contro Portland fra Kobe e Shaq (dopo una stagione di battibecchi), l’overtime vinto dal solo Bryant in gara 4 delle Finals sempre del 2000 contro gli Indiana Pacers, il buzzer beater di Robert Horry in gara 4 contro i Sacramento Kings e molti altri.
Shaq è MVP delle finali in tutte 3 le stagioni e MVP della stagione nel 2000, anno in cui è, probabilmente, uno dei più forti centri NBA di tutti i tempi.
Negli anni in California diventa anche un intrattenitore e un personaggio mediatico a 360° sfornando di anno in anno: soprannomi, citazioni e memorabili spot commerciali atti a descrivere la sua persona e il suo personaggio.
Fra gli svariati nicknames che si è attribuito in questo periodo, due sono fondamentali per definirlo come giocatore: M.D.E. (Most Dominant Ever) e The Diesel.
Questi possono essere visti come le due anime, antitetiche, che convivono nello Shaq giocatore: da una parte la più grande forma di onnipotenza fisica e tecnica mai apparsa sul rettangolo di gioco, dall’altra il fatto che questa squassante potenza venisse centellinata e regolata a seconda della voglia del guidatore (con vivo disappunto di Bryant).
Dopo la grandezza viene però la caduta.
Le ultime due stagioni ai Lakers (2003 e 2004) sono infatti caratterizzate da problemi fisici per Shaq, costretto ad un intervento chirurgico all’alluce, che ne limiteranno l’efficacia in campo e da sempre più feroci screzi con Kobe riguardo la tenuta fisica e le prestazioni del Diesel, mai noto per la sua diligenza nel seguire una dieta o effettuare allenamenti estivi (girava voce avesse inserito nel contratto una postilla che prevedesse la presenza di un divano su cui sonnecchiare dopo o durante le sessioni in palestra).
Neppure l’aggiunta a roster di due futuri Hall of Famer come Karl Malone e Gary Payton nel 2004 migliora la situazione con i Lakers sconfitti nelle Finals dai Detroit Pistons di Larry Brown, Rasheed e Ben Wallace.
Alla fine dell’anno Jackson viene licenziato e Shaq, di fatto, messo sul mercato.
Ha fine una delle più grandi dinastie dei tempi moderni.
Il “bollito” Shaq nelle Finals 2006.
Ma nello sport, come nella vita, ogni fine è un nuovo inizio.
Shaq viene spedito (visto come un giocatore nella fase declinante della carriera) ai Miami Heat dell’emergente Dwyane Wade promettendo ai suoi nuovi tifosi un titolo entro breve (in pieno stile Shaq).
Il primo anno, con Stan Van Gundy sulla panchina, mantiene delle medie in linea con quanto fatto gli anni precedenti giocando il suo numero massimo di partite stagionali dal 2001 (ben 73) e trasformando gli Heat nella prima testa di serie ad Est, togliendosi lo sfizio di battere Kobe nella Christmas Day Battle al suo ritorno ad L.A. (nonostante l’uscita per falli durante la partita).
Tuttavia i sogni di gloria della franchigia si arenano ancora una volta contro i Detroit Pistons nelle finali di Conference contro cui perdono di stretta misura.
Ma è l’anno successivo con Pat Riley a sostituire Van Gundy che Shaq compie una ulteriore maturazione cestistica.
Convinto dalla gestione del minutaggio del coach e “spinto” da un infortunio nella seconda partita di campionato, O’Neal raggiunge quell’anno il minimo di minuti stagionali giocati in carriera calandosi perfettamente nel ruolo di spalla per Dwyane Wade, delegandogli il ruolo di leader e prima opzione offensiva (facendo qualche comparsata quando la posta in gioco è alta).
Risultato?
Ennesimo titolo (con una splendida rimonta in gara 3 sui Dallas Mavericks di Dirk Nowitzki nelle Finals) ed ennesimo soprannome (The Big Sidekick) a testimoniare l’efficienza di questa sua nuova versione.
È però il canto del cigno.
Nei due anni successivi agli Heat, la coppia non riuscirà più a ripetere l’impresa ed il deterioramento dei rapporti di Shaq con Wade e Riley, complici infortuni per entrambi i giocatori ed un vistoso calo fisico per Shaq, porterà la franchigia a scambiare Shaq con i Phoenix Suns nel 2008.
La conferenza stampa, in pieno stile Shaq, con cui annuncia il ritiro.
La carriera di Shaquille O’Neal termina, di fatto, qui.
I restanti anni da girovago NBA (Phoenix, Cleveland e Boston) sono solo cameo da attore non protagonista di un giocatore paragonabile a delle rovine romane, ruderi decadenti testimoni di una gloria ormai passata; le sue statistiche individuali calano vorticosamente, mentre il peso sale e le sue motivazioni vengono meno.
Imprigionato in quel personaggio e in quel tipo di giocatore che è stato e non potrà mai più essere, assistiamo al declino di un giocatore limitato da quelle stesse caratteristiche che hanno contribuito alla sua grandezza: quella mole, quell’enorme corpo che al tempo dei fasti e delle parate danzava leggiadro sulle punte annichilendo tutti con la sua squassante potenza è ora piantato a terra, incatenato dalle leggi incontrovertibili della fisica, pesante.
Anche se la verve dello showman e del comico non lo abbandona mai.
Nel 2011 Shaq annuncia il ritiro, dopo 19 stagioni NBA.
Il divertimento è stato sempre il leitmotiv della carriera di Shaq.
Shaquille O’Neal lascia di sé un ricordo ambivalente ma sicuramente ingombrante per la sua importanza e il suo carisma.
Non solo per i suoi riconoscimenti individuali, svariati e molteplici, ma per la capacità di sublimare quei limiti che il suo fisico avrebbe dovuto imporgli e trasformarli in una forza capace di dominare la NBA, fino a quando l’età e l’indole non lo costrinsero a pagare il conto.
E sebbene possa sembrare paradossale, stando a quanto affermato precedentemente, in realtà l’intera carriera di Shaq è stata solo la dimostrazione del suo potenziale, mai raggiunto appieno: mai stato in forma dopo il 2000, mai allenatosi veramente con quell’ossessione tipica del campione, mai rispettoso di diete o limiti e in generale un gaudente “bon viveur”, con solo quel corpo a fare tutta la differenza.
Troppi se, per dare un giudizio veramente univoco su un giocatore del genere.
Ma che siate suoi estimatori o haters, di sicuro Shaq ha insegnato qualcosa a tutti noi: che una carriera quasi ventennale se vissuta con il sorriso e con leggerezza di un bambinone lascerà sempre e solo un ricordo positivo di quel che è stato.
Gioco a pallacanestro da quando ho 5 anni e mi piacciono i libri scritti da gente morta almeno un secolo fa. Per il resto tutto bene.
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