La settimana scorsa il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione che chiede al governo di Israele di interrompere ogni attività nella costruzione di nuove colonie in Cisgiordania. Il voto sulla bozza di risoluzione presentata congiuntamente da Venezuela, Senegal, Nuova Zelanda e Malesia (inizialmente proposta dall’Egitto, il quale ha cambiato idea dopo l’intervento diretto del Presidente eletto statunitense Trump) ha avuto esito positivo soprattutto grazie all’astensione statunitense: il primo ministro Netanyahu l’ha chiamata una mossa vergognosa e si è già pronunciato sul fatto che Tel Aviv non rispetterà quanto prescritto dalla mozione e che si sente tradito da Obama. Senza contare che tale azione infiammerà l’intero Medio Oriente. Il presidente eletto Trump, dal canto proprio, si è unito alla condanna e ha anche annunciato attraverso il suo account Twitter che “dopo il 20 gennaio alle Nazioni Unite cambierà tutto”. Per contro, l’ambasciatrice di Washington al Palazzo di Vetro, Samantha Power, ha comunicato che la motivazione del mancato veto sta nel supporto alla soluzione dei due stati: il peggioramento della situazione avvenuto recentemente con l’aumento degli insediamenti sarebbe, infatti, totalmente incompatibile con una soluzione pacifica della questione.
La questione insediamenti nasce nel 1967, subito dopo la fine della Guerra dei Sei Giorni, conflitto lampo nel quale Israele sconfisse una coalizione di paesi composta da Egitto, Giordania, Siria e Iraq. Nel territorio conquistato in Cisgiordania Israele istituì delle colonie di popolamento volte a rivendicare per sé quei territori stabilendovi una presenza israeliana. Successivamente molti di essi verranno sgomberati durante i successivi accordi di pace, ma altrettanti rimangono, in special modo nelle zone situate nei pressi di Gerusalemme Est e sulle alture del Golan, per un totale di oltre 700.000 israeliani residenti in Cisgiordania. Nel corso degli anni, oltre al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, anche molti altri organi hanno dichiarato illegali le colonie dal punto di vista del diritto internazionale: tra tutti spiccano Unione Europea e la Corte Penale Internazionale (di cui Israele ha firmato lo statuto ma non ha ratificato l’adesione) che ha definito il trasferimento di popolazioni civili a scopo di occupazione un crimine di guerra.
Il problema degli insediamenti è uno dei motivi centrali per cui non si è ancora giunti a degli accordi conclusivi tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese: la permanenza di aree che sono de facto sotto il completo controllo di Tel Aviv presenta due ordini di problemi. Il primo concerne la sovranità di un eventuale stato palestinese, che al momento della sua istituzione non sarebbe in grado di esercitarla pienamente su diversi quartieri vicini al confine con Israele. In secondo luogo la permanenza di comunità ebraiche oltre il confine costituirebbe un Casus Belli facile da sfruttare per Tel Aviv, che non esiterebbe ad utilizzarlo al momento più opportuno adducendo la scusa di voler proteggere i propri connazionali situati oltre il confine.
La risoluzione porterà conseguenze anche nella politica interna del paese: è lecito aspettarsi che tale provvedimento influenzerà positivamente il consenso nei confronti di Netanyahu, dato che il presidente ha sempre fatto delle colonie una questione centrale e quello dei coloni è uno dei bacini elettorali in cui va forte. Si prospettano quindi un’ulteriore risalita nei consensi anche tra gli ortodossi, presso cui aveva perso qualche punto in seguito allo scandalo dei sottomarini, nel quale la polizia israeliana ha portato alla luce una serie di procedure poco trasparenti per l’acquisto di alcuni sommergibili dall’azienda tedesca ThyssenKrupp. La risoluzione non parla nemmeno di eventuali offensive all’interno della Striscia di Gaza (Le operazioni Pioggia d’Estate del 2006 o Piombo Fuso del 2008, che negli scorsi anni si sono ripetute ciclicamente non tanto a scopo di conquista e comando del territorio, ma per scopi maggiormente legati all’identità: delle “guerre rituali” scatenate per riaffermare la propria identità in positivo e quella dell’altro in negativo.
La reazione del presidente eletto Donald Trump è indicativa del come intende condurre la politica estera nei prossimi 4 anni: se la nomina a Segretario di Stato di Rex Tillerson, Amministratore Delegato della compagnia petrolifera Exxon, aveva già fornito qualche indizio sul come Trump intendesse gestire il rapporto con il Medio Oriente ecco che tale occasione delinea un’attenzione particolare non solo al Medio Oriente e alle zone d’estrazione di idrocarburi, ma anche a quelli che sono stati gli “alleati storici” degli Stati Uniti. Tra questi ultimi alcuni sono stati lasciati parzialmente in disparte durante l’amministrazione Obama: in particolar modo Israele ma anche l’Arabia Saudita, che dopo la presa di distanza statunitense avvenuta negli ultimi 8 anni sta cercando di prenderne il posto come dimostra l’intervento diretto in Yemen o quello indiretto in Siria e di diventare una potenza regionale magari a scapito di Iran e Turchia, altri attori importanti che stanno cercando di assumere la guida della regione.
Per quanto riguarda le tensioni nella regione, è difficile dire se la risoluzione porterà instabilità prospettando scenari in cui una delle potenze regionali sopra nominate si senta in dovere di attaccare militarmente Israele per proteggere la causa palestinese. Data la scarsa volontà di Tel Aviv nel voler cooperare sul tema, sono ipotizzabili delle sanzioni economiche che, oltre ad aumentare il consenso verso Netanyahu, potrebbero finire per danneggiare anche quei paesi del Medio Oriente che hanno, nel corso degli anni novanta e dei primi anni duemila, stretto rapporti commerciali sempre più forti con Israele (in particolar modo la Turchia, le cui esportazioni in Israele sono quantificabili in 2 miliardi e mezzo di dollari ogni anno). Per creare i due stati la risoluzione non è nient’altro che un primo passo: il prossimo è dotare la futura Palestina di un’infrastruttura statale certa e credibile affinché essa non diventi uno stato fallito nel giro di pochi mesi dall’indipendenza, come accaduto in molte altre realtà.
Studente studioso delle Relazioni Internazionali, particolarmente interessato a temi vicini alla Sicurezza (Inter)Nazionale. Orologiaio che cerca di capire il funzionamento di un sistema composto da 7 miliardi di ingranaggi.
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