Erdoğan torna a scontrarsi con l’Europa, a poco più di un mese dal referendum turco che si propone di trasformare il Paese in una repubblica presidenziale. Il testo della riforma costituzionale, approvato lo scorso gennaio dal Parlamento, non sembra avere il favore di popolo necessario per andare definitivamente in porto: è infatti richiesta la maggioranza assoluta degli aventi diritto, ma – stando ai sondaggi – solo il 47,9% dei Turchi sarebbe d’accordo con quello che è senza dubbio un ulteriore accentramento di potere da parte di Erdoğan, non ancora pago dell’epilogo del golpe della scorsa estate.
L’AKP (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo) di Erdoğan, infatti, sarebbe con poca discussione a riguardo il beneficiario della svolta presidenziale prevista dal referendum turco, essendo il partito di governo da ben quindici anni ed avendo addirittura ottenuto la maggioranza assoluta in Parlamento in tutte le elezioni da allora, tranne una. L’AKP spinge per una riforma di questo tipo già dal programma elettorale del 2011, ma allora non riuscì a raggiungere un qualsivoglia consenso sulla proposta. A distanza di cinque anni e poco più, il Paese è profondamente mutato nella sua struttura socio-politica, ed Erdoğan gode di uno spazio di manovra ben più ampio per sovrastare l’opposizione.
Il referendum turco prevede diciotto modifiche alla Costituzione, delle ventuno che inizialmente erano state proposte in Parlamento: se le urne restituiranno un parere positivo, la Turchia diventerà a tutti gli effetti una repubblica presidenziale, con il Presidente a ricoprire il ruolo di Capo dello Stato e del Governo a partire dalle successive elezioni. Il resto del sistema risulterebbe modificato di conseguenza: la durata della legislatura passerà da quattro a cinque anni, con le elezioni per Parlamento e Presidente da tenersi nella stessa occasione. Per potersi candidare alla carica di Presidente sarà necessario avere l’endorsement di almeno un partito che abbia ottenuto più del 5% di voti alle elezioni precedenti, oltre che di 100mila votanti. Il Parlamento potrà proporre investigazioni sugli atti del Presidente con la maggioranza assoluta; di fronte a un veto presidenziale contro una proposta di legge del Parlamento, quest’ultimo dovrà adottare lo stesso testo a maggioranza assoluta; inoltre, per le elezioni anticipate sarà necessaria la decisione del Presidente e di tre quinti del Parlamento.
Nella proposta del referendum turco sono ben poche le garanzie a difesa del pluralismo democratico. E non è necessario l’aiuto di un esperto di diritto costituzionale per constatare come questa riforma vada a favorire Erdoğan e l’AKP in modo diretto, specialmente se si tiene in considerazione il sempre più debole ruolo delle opposizioni nella situazione politica della Turchia odierna. Motivo, questo, per cui il “sultano” si sta adoperando in ogni modo per racimolare il consenso necessario prima del voto del 16 aprile.
Il dibattito referendario interno al Paese comincia già ad assumere tratti inquietanti, conducendo a quella che BBC definisce una vera e propria demonizzazione della parola “no”. La prima pietra l’ha scagliata lo stesso Erdoğan, in barba al più primitivo concetto di buon senso democratico. Qualche giorno fa, il Presidente in carica ha affermato in un comizio che i cittadini che voteranno “No” saranno da considerarsi “schierati con i golpisti” dello scorso luglio, per poi ripetere lo stesso concetto alludendo al PKK (Il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, illegale in Turchia). Alla pericolosa esternazione si è accodata quella del sindaco di Ankara, Melih Gökçek (AKP, ovviamente), che ha scritto in un tweet “tutti i traditori dicono ‘no’”. In effetti, sono stati trattati come tali i manifestanti che qualche giorno fa sono stati attaccati dalla polizia nel quartiere Kadiköy di Istanbul, con spray urticante e sotto tiro di pistola.
Ma la campagna governativa non si ferma qui: ad esempio, i dépliant di una campagna antifumo del Ministero della Salute sono stati ritirati in blocco perché contenenti la parolina indesiderata (in turco, hayir) a lettere rosse maiuscole. Anche la messa in onda del film cileno No, relativo alla sconfitta in un referendum del regime di Pinochet, è stata cancellata per motivi simili. Va poi riportato il caso di Orhan Pamuk, Premio Nobel per la Letteratura, il quale si è visto depennare dall’agenda un’intervista in programma dopo aver dichiarato il suo voto negativo. Un esempio ancora più grave di ingerenza politica nell’informazione è infine quello di İrfan Değirmenci, noto presentatore televisivo, defenestrato da Kanal D dopo essersi rifiutato di cancellare un suo tweet in favore del “No”. Ed è sempre la BBC a riportare come, in generale, la parola in questione sia sempre meno usata anche nelle conversazioni quotidiane.
Se la battaglia interna è condotta da Erdoğan con facilità ed efficacia, portando ad un aumento progressivo del “Sì” nei sondaggi, è diverso il caso dei votanti all’estero, importantissimi in una corsa serrata come quella dell’attuale referendum turco. Ma una riforma del genere ha provocato reazioni ben diverse al di qua del Bosforo, in particolare in quei Paesi che ospitano una quantità considerevole di cittadini turchi.
In primo luogo è stata l’Austria, a fine febbraio, a mettersi in mostra per la cancellazione di diversi eventi per il “Sì” ai quali avrebbero presenziato esponenti politici o diplomatici turchi. Il diniego, originariamente operato da singoli comuni e privati, si è poi evoluto in una proposta del Ministro dell’Interno di proibire i comizi di pubblici ufficiali esteri, qualora i diritti umani o l’ordine pubblico fossero a rischio. In quel caso, da parte turca, il vicepremier Numan Kurtulmuş ha risposto descrivendo l’ingerenza come “non benvenuta” ed affermando che “il referendum non riguarda l’Austria”. Le relazioni fra Vienna ed Ankara sono già pessime dal golpe di luglio, e tendono certamente a peggiorare ora che il cancelliere Kern alza il tiro e propone di chiudere definitivamente le trattative per l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea, oltre a ritirare i 4.5 miliardi di aiuti al Paese previsti da qui al 2020 per l’emergenza migranti.
Ma è stata, senza ombra di dubbio, la reazione tedesca a mandare per prima su tutte le furie Erdoğan, in modi che l’opinione pubblica mondiale ha potuto ampiamente constatare. Anche in questo caso è stata l’iniziativa di singole città a condurre al ban dei comizi a favore del referendum turco, in particolare con la cancellazione di un discorso del Ministro dell’Economia Nihat Zeybekci. In Germania, la protesta si lega strettamente a quella per l’arresto del giornalista turco-tedesco Deniz Yücel (Die Welt), detenuto ad Istanbul dal 14 febbraio per “associazione terroristica, propaganda e diffusione di dati riservati”. Nello specifico, si tratta di email sottratte a Berat Albayrak, genero di Erdoğan e Ministro dell’Energia, in cui si parla del controllo di gruppi editoriali a scopo di influenza mediatica. Da parte del “sultano” è arrivata allora, in merito ai ban, la controversa e ben documentata accusa alla Germania di pratiche “naziste”. La – solo nei toni – più pacata reazione del Ministro degli Esteri, Mevlüt Çavuşoğlu, parla di approccio “sistematicamente anti-turco” e “pressione politica sui cittadini turchi”.
Il resto della vicenda è stato ampiamente coperto dai media di tutto il mondo, proprio come il più recente incidente diplomatico che ha visto per protagonista l’Olanda. In questo caso è stata direttamente un’azione governativa a proibire l’atterraggio dello stesso Çavuşoğlu nel Paese, in vista di un comizio a Rotterdam. Ed anche stavolta Erdoğan non ha dovuto far attendere il ripetersi delle accuse di nazismo, ora indirizzate ad Amsterdam. Al di là della forte tensione diplomatica, il premier Rutte ha promesso di non prendere alcuna misura in cambio delle scuse di Ankara, volendo evitare di infiammare il dibattito in un Paese prossimo ad elezioni che vedono forte, seppur in calo nei sondaggi, il fronte anti-immigrati ed anti-Europa di Geert Wilders. Ma il dibattito c’è eccome, ed ha condotto a proteste di piazza nell’uno e nell’altro Paese.
A prescindere dall’esito del referendum turco, sembra certo che questi eventi andranno a costituire una (nuova) macchia sulla reputazione di Erdoğan ed i suoi rapporti con l’Europa. A questo punto è davvero difficile, infatti, che la Turchia possa nutrire la benché minima speranza di entrare nell’Unione fintanto che il presidentissimo rimarrà al potere. In particolar modo se, di fronte, c’è un’Europa in estrema difficoltà e tuttavia – o proprio per questo – propensa a radunarsi attorno all’unica egida che al momento pare essere realmente condivisa: la difesa dei suoi valori democratici.
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