A Nine il rap piace, parecchio. Inizia dalle “freestyle battles” nel campetto della scuola, è fissato con il numero 9 ed incastra in rima tutto ciò che pensa. Se “La prova del nove” era un ottimo inizio, il nuovissimo album “Stereoloquio” è ciò che lui definisce un disco di passaggio, a rimarcare il fatto che non vuole più rimanere fermo, fossilizzato. Chiama a raccolta artisti con diverse radici, provenienti da generi diversi. Non gli piacciono le etichette, vuole solo produrre buona musica ed esporre i suoi discorsi interiori.
Cos’è “Stereoloquio”?
Stereoloquio è innanzitutto una necessità artistica, una sorta di desiderio personale. È un flusso di pensieri e di idee, che escono fuori secondo quel processo che Joyce chiamerebbe “Stream of Consciousness”. Quei discorsi interiori che faccio con me stesso ma che poi rimangono intrappolati dentro l’infinito circuito dei miei pensieri. Sono pezzi di storie di persone che hanno fatto parte della mia vita, chi nel bene e chi nel male, e che hanno fatto sì che oggi io sia anche questo. Diciamo che è un po’ come se litigassi da solo davanti a uno specchio.
Affermi spesso di non volerti definire “rapper”, ma qual è la realtà musicale da cui provieni? Quali sono i tuoi artisti di riferimento, dai quali trai ispirazione?
Il mio primo avvicinamento alla musica è stato con lo stereo della macchina dei miei genitori: lo stereo di mio padre vantava artisti del calibro di Jimi Hendrix, Eric Clapton, e Pino Daniele. Mia madre era più per le voci italiane come quelle di Giorgia, Ligabue e Tiro Mancino. Mio fratello, invece, ascoltava tutt’altro: spaziava tra Metal e Rock, dal Grunge all’Indie, da Elio e Le storie tese fino alle colonne sonore dei videogiochi. Grazie a lui mi avvicinai per la prima volta a quello che era il rap di fine anni ‘90, con un pezzo de Il Piotta. Approfondendo arrivai fino a quello che invece girava a Milano in quel periodo: gli Articolo 31. Ricordo ancora Il primo disco che comprai, fu ad una bancarella vicino scuola, era “Curtain Call” di Eminem.
Quando tornai a casa passai almeno due ore a risentilo in loop. Mi ero definitivamente innamorato di quello che tutti chiamavano Rap. Le vere scoperte però furono ben altre: a quindici anni andai al mio primo concerto, era un gruppo di amici di mio fratello, si facevano chiamare H501. Quel Live fu la conferma che quel mondo chiamato rap mi faceva sentire qualcosa. Avvicinandomi a loro scoprii artisti come Bassi Maestro, Rancore, Fabri Fibra e in particolare Ghemon. Quest’ultimo mi aprì una visione musicale completamente nuova sul rapporto tra testo, canzone e ascoltatore. Se dovessi scegliere due artisti di riferimento direi senza dubbio lui e Rancore. E comunque è vero, ad oggi non mi sento più un rapper: preferisco definirmi “un cantante che si avvale del rap come forma di espressione”.
Quanto ha influito nel tuo processo di crescita e formazione la collaborazione con vari artisti provenienti da diversi stili?
Tantissimo. Come ogni persona che si approccia a qualcosa (in questo caso la musica) si tende ad avere una visione molto stretta e personale sugli approcci da adottare. Una delle collaborazioni che mi ha insegnato moltissimo è stata sicuramente quella con il mio chitarrista Edoardo Abate: con lui ho imparato ad ampliare e a spaziare questa mia capacità visiva, allargando i miei confini e la mia conoscenza musicale, fino a sperimentare anche la fusione di un gruppo con strumenti dal vivo (cosa che all’inizio della mia carriera non avevo mai preso in considerazione). Questo mi ha fatto crescere moltissimo, sia sotto l’aspetto professionale che sotto quello organizzativo: imparavo a muovermi all’interno di più contesti musicali e non.
Racconta un aneddoto passato, un evento significativo per te.
Il ricordo più bello che tengo ancora fisso in memoria è stato sicuramente il mio primo concerto dal vivo. Era il 2009 ed ero al secondo anno di liceo, sarei dovuto essere al terzo ma avevo perso un anno. Come ogni anno si organizzava il concerto di fine scuola, quella volta decisi di partecipare anche io. L’aneddoto più particolare è stato il fatto che fino a quel momento sono sempre stato una persona introversa e abbastanza timida. Ma quando sono salito su quel palco e ho preso il microfono in mano mi sono completamente galvanizzato. Non so cosa successe in quei due minuti e mezzo in cui ho cantato quel pezzo. So soltanto che da quel momento ho subito una metamorfosi interiore che mi ha fortemente cambiato e trasformato nella persona ed artista che sono oggi.
Ti è capitato componendo nuova musica di spostarti su altri “lidi sonori” a te sconosciuti prima? Hai scoperto nuovi orizzonti?
Da bravo “Rapper” ho sempre cantato su basi musicale fatte al computer da “Beatmakers”. Un giorno si presentò Edoardo Abate e propose una collaborazione con lui in acustico, nacque così “Cielo di Granito” (traccia numero 9 del mio primo disco “La prova del 9”). Da quel momento continuammo a tenerci in contatto e a suonare insieme, fino a collaborare con un batterista e un tastierista con il quale formammo un gruppo. Che come ogni gruppo che si rispetti poi si è sciolto…
A prescindere da questo è stata un’esperienza formativa davvero importante. Non avevo più una base su cui cliccare play che andava in loop da sola, stavolta avevo la possibilità di vedere come si comportassero davvero degli strumenti suonati dal vivo. Questo mi ha consentito di stravolgere completamente quelle che fino a quel momento erano le mie credenze musicali. Mi ha permesso di affacciarmi alla finestra di nuovi orizzonti che prima di allora mi erano completamente estranei. Sulla scia di quest’onda vorrei approfittarne per annunciare che il mio prossimo lavoro sarà in collaborazione proprio con Edoardo. E forse qualche altro strumento…
Un parere sui contest musicali. Che ne pensi dei grandi talent show quali X Factor e The Voice Italia? Pensi che in Italia sia più difficile per un artista emergere, rispetto all’immenso impero americano?
Ho partecipato a due contest per artisti emergenti, riconosco che anche essi siano stati una grande esperienza formativa per la mia musica. Con il tempo ho deciso di allontanarmi da questo genere di “Trampolini Immaginari”. Personalmente credo che ognuno sia un qualcosa di unico e a se stante con la sua musica, qualcosa di irripetibile. E se mai un domani la sua musica dovesse riecheggiare nello stereo di dieci, cento, mille impianti, vorrà dire che la sua musica ha raggiunto coloro che doveva raggiungere: non per merito di terzi. Perché se quello che fai è davvero bello e sentito, prima o poi arriverà comunque a qualcuno. È un po’ quanto vale per il teatro: se sali sopra una sedia e reciti un monologo, con davanti anche solo una persona, in quel momento stai facendo teatro.
Un consiglio a chi come te sta provando a produrre musica, esclusivamente contando sulle proprie forze.
Di ascoltare tanta musica, sia nel caso di un musicista che in quello di uno scrittore. Per quest’ultimo mi sento di dover consigliare soprattutto la musica della propria lingua di origine. Mi è capitato spesso di ascoltare diversi brani e di riflettere su concetti espressi a brevi accenni, che magari sono rimasti incompiuti o espressi troppo superficialmente. Consiglio di nutrirsi di qualsiasi piccolo sprazzo di emozione che la vita e le sue scelte ti offrono. La musica è la reincarnazione delle nostre emozioni.
Come intendi procedere ora che è uscito il disco? In che modo e con quali mezzi (anche social, oltre che live) pensi di volerlo supportare?
In questo periodo sto organizzando diverse date in cui suonare e spingere principalmente la mia musica dal vivo. Amo suonare dal vivo, apprezzo il contesto. Soprattutto se le persone sono venute apposta per me e sono quindi disposte ad ascoltare quello che ho da dire. Naturalmente sto spingendo le canzoni di “Stereoloquio” anche dalla mia pagina e dal mio profilo Facebook. Ma dal vivo la resa dei pezzi è sicuramente migliore. Se sto avendo una piacevole conversazione con qualcuno che ho appena conosciuto, gli consiglio l’ascolto del disco. Se stiamo andando d’accordo mentre discutiamo, magari c’è possibilità di farlo anche musicalmente.
Sei aperto a collaborazioni? Saresti pronto a spingerti oltre le mura della tua Città?
Apertissimo, certo! Ogni nuova collaborazione rappresenta una nuova scoperta, uno scambio reciproco di pareri musicali. Soprattutto la possibilità di dare una forma personale e modellabile a quello che si decide di creare insieme. E comunque certo, mi piacerebbe molto potermi spingere fuori dalle mura della mia città. Anche solo per capire se l’aria che tira dalle mie parti. Potrebbe essere la stessa che tira da altre.
Se ne hai in programma, ci vuoi rivelare in anteprima eventi futuri?
Il 29 Dicembre suonerò al Wishlist a San Lorenzo (Roma) con un gruppo di ragazzi che consiglio di ascoltare, i Subba And The Roots. Loro porteranno Jazz mischiato al Reggae, io presenterò Stereoloquio per la prima volta dal vivo. Tra Gennaio e Febbraio invece dovrei suonare al 360 Gradi sempre a San Lorenzo. Sarà uno showcase organizzato da Romanderground: Il “Fight Club”, uno degli eventi di freestyle più prestigiosi nel panorama hip/hop della capitale.
Queste le date per adesso, ci vediamo sotto al palco.
Per seguire l’artista sui social: pagina Facebook.
Per ascoltare “Stereoloquio” su youtube.
Se la mia vita fosse perfetta mi trovereste sempre sotto ad un palco. Scrivo di musica, e ne ascolto tantissima. Studio a Scienze Politiche perché mi piacerebbe conoscere e saper affrontare qualsiasi argomento possibile. O forse perché ho paura ad addentrarmi troppo nei contorti meandri di materie scientifiche. Suono il basso, in un gruppo metal di cattivi ragazzi, di quelli che fanno riti satanici quando c'è luna piena. Amo l'arte, in tutte le sue forme. Anche la preparazione di una carbonara è arte. Vado fuori di testa ad ogni rappresentazione della Tosca. Ah, il tiro "Alla Del Piero" è arte.
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