Attenzione: quello che state per leggere non è un articolo d’opinione – l’ennesimo – sul presunto “caso Barilla”, esploso due o tre settimane fa dopo le dichiarazioni sul concetto di famiglia tradizionale del Presidente dell’azienda parmigiana. E’ piuttosto il racconto di un altro caso in cui una multinazionale e l’ineffabile lobby gay si sono scontrate. E per una volta, ad essere umiliata, è stata la multinazionale.
EY è una società di revisione contabile e consulenza nata nel 1989 dalla fusione tra quelli che erano allora i player di mercato numero 4 e 5, ovvero gli studi Ernst & Whinney (fondato nel 1849) e Arthur Young (1906). Per anni la società si è chiamata Ernst & Young, abbreviata per comodità E&Y. La questione delle sigle e acronimi è molto sentita in questo settore a causa delle strategie competitive condivise da tutti i competitors, che da piccoli studi associati intitolati al fondatore hanno cercato nei decenni nuovi partner con cui unirsi e rafforzarsi. Attualmente EY fa parte delle Big4 della revisione: le altre tre sono PwC (ex PriceWaterhouseCoopers), KPMG (unione di Klynveld Main Goerdler e Peat Marwick) e Deloitte (che una volta si chiamava Deloitte & Touche). Capite ora la necessità di sintetizzare il più possibile i nomi d’origine.
Stiamo parlando ovviamente di società che hanno almeno un ufficio in ogni Paese del globo, tolti forse la Groenlandia, Atlantide e la Basilicata. Per questo motivo il loro marchio vale moltissimo. Giusto per capire le dimensioni della questione, queste sono le posizioni nel 2o13 delle Big4 nei ranking mondiali per brand
Finance 500: Pwc (51), Deloitte (72), KPMG (85), EY (92)
Global Brand: Pwc (51; valore stimato del marchio: $16mld), Deloitte (72; $13mld), KPMG (80; $10mld), EY (92; $10mld).
Sarà forse per il fatto di essere la più piccola tra le grandi, nell’estate di quest’anno Ernst&Young ha deciso risparmiare sulla “&” e rilanciare il proprio marchio usando l’ancor più essenziale EY. Due lettere che, come visto nei rankings, valgono almeno 10 milioni di dollari. La ristrutturazione dell’immagine aziendale deve quindi essere costata parecchio: mesi di analisi, studi di mercato, scelta del font delle lettere, battaglia sul colore da usare, nottate a pianificare le pubblicità e a formulare il nuovo motto aziendale. Peccato che a nessuno sia venuto in mente di fare una cosa che, con il banalissimo senno di poi, si sarebbe rivelata tanto facile quanto fondamentale. That is, cercare “EY” su Google Immagini.
Un giovane uomo nudo, sdraiato, che ti guarda sorridendo nascondendo il pene con la mano. Un altro mostra i muscoli, e il bordo inferiore della copertina a malapena copre i peli pubici. Un altro ancora annusa soddisfatto l’ascella di un suo amico. Questo è quello che potete vedere ancora a mesi dal restyling di Ernst&Young.
Perché è saltato fuori che EY è un brand già utilizzato da Electric Youth, un magazine spagnolo che potremmo definire come la versione gay-teen di Playboy. Almeno 9 fotografie su 10 che appaiono sul motore di ricerca appartengono al poco diffuso ed insignificante giornaletto mentre sulla manciata di pixel rimanente appare, timidissimo, il logo della Big4 e il volto di qualche suo dirigente. Immaginate quindi la faccia dei partner di Ernst&Young nello scoprire che su Google Immagini il loro viso da un milione di euro l’anno è circondato da ragazzetti più o meno glabri che ammiccano come una coniglietta ma con uno sguardo innocente alla Justin Bieber.
Senza dubbio, almeno questa volta, è stata la lobby gay (termine solitamente usato senza cognizione di causa) ad umiliare una grande multinazionale. Risultato simbolico? Una battaglia vinta nella contesa globale sui diritti degli omosessuali. Risultato economico? Nulla, zero, punto. Perché se pensate che ora il brand di Ernst & Hot-dirty-Young crolli, o che il fatturato di Barilla risenta sensibilmente delle dichiarazioni di quel coglione del suo Presidente, allora vi sbagliate. Tutt’al più ne guadagnerà in pubblicità una rivista osé e qualche politico certamente più osceno.
Per quelli che la partita doppia è andare allo stadio ubriachi. Prendo un libro o un giornale di economia, lo apro a caso, leggo e – qualche volta – capisco l'argomento, infine lo derido. Prima era il mio metodo di studio, adesso ci scrivo articoli. Sono Dan Marinos, e per paura che mi ritirino la laurea mantengo l’anonimato.
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