Durante il mese di aprile abbiamo ricordato il leggendario Roy Orbison, abbiamo dato un’occhiata ai brani più importanti dei Nirvana, abbiamo imparato la storia del chitarrista virale Brushy One String e abbiamo parlato del ruolo di Bach per lo sviluppo della musica tonale. Ora però analizziamo i cinque dischi che ci sono piaciuti di più nel corso di questo mese, segnato in particolare dai nuovi album del rapper Kendrick Lamar e del chitarrista John Mayer.
C’è qualcosa da aggiungere su Kendrick Lamar che non sia stato già detto? Al suo quinto album in studio, intitolato DAMN. e uscito il 14 aprile, il rapper californiano dimostra ancora una volta – come se ce ne fosse bisogno – di essere uno dei musicisti hip hop più ispirati degli ultimi anni, capace di posizionarsi ad uno standard qualitativo difficilmente raggiungibile per i suoi colleghi.
DAMN. è un disco fortemente introspettivo, dove Lamar concentra le proprie riflessioni su di sé, sulla sua condizione di afroamericano nella società e, soprattutto, di uomo di fronte a Dio. È infatti la religione uno dei temi portanti del disco: Lamar analizza il suo rapporto con la fede, convinto dell’esistenza di una qualche divinità ma allo stesso tempo fortemente attaccato alla vita terrena; il corpo che si oppone all’anima. Il carattere dicotomico di DAMN. è perfettamente sintetizzato nelle due tracce centrali del disco, PRIDE. e HUMBLE.: le due canzoni si contrappongono fin dal titolo e anche nel contesto musicale, dove la base è a sua volta in contrasto con la tematica centrale del relativo brano.
Unica nota “negativa” dell’album è la doppia collaborazione con Rihanna e U2, rispettivamente in LOYALTY. e XXX.: l’idea di rendere DAMN. più abbordabile commercialmente con la partecipazioni di questi giganti del pop non è in sé sbagliata, ma purtroppo la loro presenza non sembra dare un contributo particolarmente rilevante ai fini del disco, finendo quindi per essere solo un nome in più da vantare sulla copertina. (Vittorio Comand)
Con Pop, uscito nell’ormai lontano 2000, il compositore tedesco GAS (al secolo Wolfgang Voigt) aveva portato a massima maturazione il suo progetto ambientale, da lui descritto come “portare la foresta nei club, o viceversa”, fatto di paesaggi eterei incastrati sapientemente su ritmi in 4/4. Il disco era stato considerato all’unanimità il suo capolavoro, il prodotto cristallino di una maturazione artistica giunta a compimento. Immaginare una fase successiva all’uscita di questo album fu difficile, soprattutto mentre gli anni passavano e la musica elettronica subiva cambiamenti rapidi e travolgenti.
Dopo ben 17 anni, invece, Voigt spiazza tutti e ingrana una marcia nascosta spingendo il suo soundscape oltre i confini fumosi disegnati dal precedente lavoro: le tinte sonore si fanno più dense e articolate, armonie complesse e in continua fluttuazione emergono lente da un paesaggio arboreo ancora più oscuro, ma non per questo meno ricco. La famosa cassa in 4/4 è meno presente nello scorrere del disco e i ritmi sono rallentati, i tappeti di synth sono resi più eterei e vaporosi, mentre si ergono impalpabili al di sopra dei samples di pioggia. Narkopop ha il fascino del cimelio senza tempo ritrovato da qualche cercatore in una foresta dimenticata. (Simone Barondi)
John Mayer, chitarrista sopraffino e pop star (a volte fin troppo) sopra le righe, ritorna a quattro anni dal precedente Paradise Valley col suo sesto album in studio, The Search for Everything. Dismessa quasi totalmente l’incerta (e poco credibile) parentesi country/roots e con l’interessante ritorno del trio (con Pino Palladino e Steve Jordan) dell’ineguagliato Continuum (2006), Mayer sembra tornare alle proprie radici fatte di pop chitarristico su base blues.
La tripletta iniziale ci mostra un Mayer in gran forma, sempre al limite tra il buon gusto e l’esagerazione, come da abitudine, ma in grado di confezionare brani bilanciati: Still Feel Like Your Man è un equilibrato connubio tra uno spettacolare e calibrato arrangiamento ed un testo stucchevole (dedicato alla ex Katy Perry), Emoji Of A Wave una ballad struggente e dal titolo talmente imbarazzante e spontaneo da strappare più di un sorriso, Helpless un giro di tre accordi dal sapore funky tanto semplice quanto efficace.
Altrove, si sentono i limiti del lavoro: nella seconda parte dell’album, esclusa la caramellosa e groovy Moving On And Getting Over, vuoi per prevedibilità, vuoi per una produzione troppo asettica, nessuna traccia spicca particolarmente ed il lavoro si traghetta dolcemente, ma mai noiosamente, verso la chiusura. Proprio le ballad al pianoforte, Changing e Never On The Day You Leave, sono i pezzi più penalizzati da una produzione troppo piatta, con la prima che si salva in corner grazie ad un buon assolo di chitarra.
The Search for Everything è altalenante, risente della personalità di Mayer, personaggio sempre sulla cresta dell’onda, mai capace di focalizzarsi a mente ferma su di una precisa idea. Caratteristica che è croce e delizia dello stesso, mai totalmente pronto a fornire un prodotto completamente efficace dal primo all’ultimo brano eppure capace di inserire in ogni album qualche gioiellino pop con gustosissimi suoni, chitarre da favola ed arrangiamenti precisi e ficcanti. (Luigi Buono)
Il 14 aprile è uscito “Tutti su per terra”, ultima fatica del quartetto Torinese “Eugenio in Via Di Gioia”, prodotto da LibellulaMusic. L’album è breve, solo nove tracce per una durata totale di circa mezzora, ma riesce comunque ad essere molto vario nella sua compattezza, oltre che esser pieno dell’ironia tipica del complesso. Questo disco riesce, brano dopo brano, a trasmettere una visione pessimistica e fatalista della vita, della società e della natura umana nella maniera più allegra e orecchiabile possibile. Un buon esempio da questo punto di vista è Sette camicie, che parla del classico tema delle costrizioni imposte agli individui e alle loro personalità dalla società per poterne far parte, ma lo fa in maniera via via sempre più frenetica, poggiandosi sulla musica jazz-y del brano.
Da segnalare anche Chiodo fisso, che racconta di un rapporto codipendente dove le persone coinvolte non possono fare a meno dell’altra nonostante siano coscienti della natura malsana della loro unione, tenuta insieme dall’egoismo e dalla convenienza più che dall’affetto, proprio come il rapporto fra l’umanità e la natura. È inoltre presente anche una collaborazione col rapper Willie Peyote, che canta in Selezione naturale, una canzone che tratta in maniera molto provocatoria il tema del bullismo. Insomma, Tutti su per terra è un disco piacevole, cantabile e con quel pizzico di nichilismo che fa sempre piacere. (Marco Meloni)
Father John Misty non è solo una delle icone della controcultura alternative del momento, e di conseguenza il portavoce di tutto questo nel mainstream, ma è sopratutto un abile autore e musicista. Sembra banale ma bisogna ricordarlo, perché ad una prima e superficiale vista Misty sembra tanto fumo e poco arrosto, con il suo look da poeta maledetto, le sue interviste ironiche e il suo essere il prototipo di hipster nel 2017, ed invece è una delle voci più interessanti dell’attuale cantautorato americano.
Già nel precedente album I Love You, Honeybear Joshua Tillman aveva mostrato le sue capacità di scrittura, ma è con questo Pure Comedy che si supera. Tillman riesce ad essere il cantore del contemporaneo, spaziando dalla politica alla società, soffermandosi sopratutto sulla tecnologia, sull’intrattenimento e sulla pop culture, come si può notare in Total Entertainment Forever: in questo brano possiamo notare la finezza della scrittura, in cui descrive in maniera precisa la cosiddetta nuova epoca in cui siamo intrattenuti in ogni secondo e con qualunque mezzo, dal gossip alla realtà virtuale. Ogni canzone si presenta come un capitolo di un saggio, che tocca un diverso aspetto dell’attualità in maniera ironica ma precisa.
Da notare il coraggio di creare canzoni relativamente lunghe come Leaving L.A., che supera i 13 minuti, mentre alcune altre tracce si aggirano fra i sei e i dieci minuti: nonostante la durata, Misty riesce comunque a mantenere viva l’attenzione, senza annoiare o stufare l’ascoltatore. Altri brani degni di nota sono Things It Would Have Been Helpful to Know Before the Revolution, un cinico inno sulle rivoluzioni fai da te del mondo occidentale, e la malinconica Ballad of the Dying Man. Dal punto di vista musicale, Pure Comedy è caratterizzato da un folk minimalista che, insieme al particolare cantato di Misty, sottolinea gli elementi più paradossali e malati della società contemporanea. Uno sguardo disincantato sulla realtà, alla ricerca di uno spiraglio di luce. (Gianni Giovannelli)
8 Novembre 2016
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