Quanto siamo lontani dalla lettura del pensiero? Per quanto assurdo possa sembrare, non troppo lontani. Nel giugno 2016, un gruppo di ricercatori della New York University ha pubblicato uno studio in cui viene dimostrato come sia possibile ricostruire uno stimolo visivo in base all’attività cerebrale nel momento della percezione dello stimolo e addirittura come questo sia anche possibile solamente grazie alla memoria dei soggetti analizzati [1]. Un laboratorio giapponese si è spinto oltre, riuscendo a decodificare il contenuto dei sogni sulla base dell’attività cerebrale [2]. Un gruppo di ricerca del Max Plank Institute è invece stato in grado di prevedere l’esito di una decisione dieci secondi prima che quest’ultima fosse conscia ai partecipanti [3].
Il fattore accomunante a tutti e tre gli studi citati poc’anzi è l’utilizzo di algoritmi di machine learning. Machine learning, o apprendimento automatico, è una branca dell’informatica atta a sviluppare algoritmi in grado di estrarre automaticamente informazioni dai dati [4]. Le applicazioni nelle neuroscienze non si limitano alla (pseudo) lettura del pensiero: gli algoritmi di machine learning vengono usati soprattutto in ambito clinico. I suddetti algoritmi sono in grado di distinguere soggetti sani da soggetti non sani per praticamente qualsiasi disturbo psichiatrico, basandosi unicamente sulla struttura e/o funzionalità del cervello [5]. Uno dei primi disturbi psichiatrici ad essere analizzato con algoritmi di machine learning è stata la schizofrenia: tra il 2005 e il 2015 più di 50 studi hanno provato a distinguere pazienti schizofrenici da soggetti normali, con un’accuratezza oscillante tra il 62 e il 100% [5].
L’altro grande campo di applicazione è la ricerca dei cosidetti marcatori biologici, ossia di misure biologiche quantificabili oggettivamente e in grado di caratterizzare in modo univoco una malattia [6]. In quest ambito è di gran lunga la ricerca sull’Alzheimer a comandare la scena. La speranza è di riuscire a prevedere quali sono le forze trainanti nella conversione da deterioramento cognitivo lieve (una forma subclinica precedente Alzheimer) all’Alzheimer vero e proprio [7]. Interessante notare anche come il machine learning permetta di integrare varie tipologie di dati. Nel contesto della ricerca sull’ Alzheimer, batterie di test neuropsicologici vengono spesso integrate con dati sulla morfologia e metabolismo del cervello e con la quantificazione di determinate proteine nel liquido cerebrospinale. Così facendo è stato possibile prevedere con tre anni di anticipo la conversione da deterioramento cognitivo lieve ad Alzheimer con un’accuratezza del 90% [7].
Il giorno in cui gli algoritmi sostituiranno il personale medico o saranno usati in tribunale è ancora però molto lontano. Il primo e più grande limite del machine learning in ambito medico/psichiatrico è di natura logica: gli algoritmi si basano su osservazioni cliniche, quindi nelle migliori delle ipotesi un algoritmo può solo essere preciso tanto quanto lo è uno psichiatra o un medico e mai di più [4]. Allo stato attuale delle cose è quasi impossibile modellare casi di comorbidità (un paziente con due o più disturbi psichiatrici) e le prestazioni calano vistosamente per quanto concerne la diagnosi differenziale, ossia distinguere tra due o più disturbi psichiatrici [5], anche se felici eccezioni al riguardo esistono [8].
Oltre ad essere (ancora) poco affidabili in ambito clinico, gli algoritmi sollevano non pochi quesiti etici: cosa rimane del libero arbitrio se a quanto pare il cervello “ha deciso” addirittura dieci secondi prima che l’esito di una scelta sia a noi consapevole? Cosa succederà nel caso in cui la prossima generazione di algoritmi sarà non solo in grado di decodificare i ricordi ma addirittura di scriverli?
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