È di questi giorni la scoperta dell’esopianeta Proxima b, un pianeta roccioso che orbita nella fascia abitabile di Proxima centauri, la stella più vicina a noi. Ci si può chiedere perché un pianeta del genere così prossimo sia stato scoperto solo ora, dopo averne visti già oltre 3000, tutti molto più lontani. Per capire questo, bisogna parlare dei sei metodi che si conoscono oggi per rilevare un pianeta extrasolare, in ordine crescente di difficoltà.
Il primo metodo, il più semplice, consiste nel puntare il telescopio verso una stella e vedere se ci sono pianeti che gli girano attorno. Galileo, oltre 400 anni fa, fu il primo a farlo con le lune gioviane, e tutti sappiamo che è da lì che è partita la ricerca scientifica. Il problema è che le stelle sono incredibilmente più lontane di Giove, e i loro pianeti hanno orbite troppo piccole. Per fare un esempio, un ipotetico alieno che osservasse il sistema solare da 10 anni luce (una distanza piccola in astronomia), non sarebbe in grado di distinguere neanche Giove dal Sole, perché quest’ultimo sarebbe troppo vicino e troppo luminoso! L’unico caso possibile da vedere è un pianeta enorme che orbita molto lontano da una stella flebile, come nella foto qui sotto.
Se è vero che un pianeta extrasolare emette una luce davvero debole (nell’infrarosso), potremmo accorgerci di lui nel caso fosse abbastanza pesante da “spostare” la stella. Infatti quando si dice “il pianeta orbita attorno alla stella”, si sbaglia: entrambi orbitano attorno ad un punto, chiamato centro di massa, che è compreso tra i due corpi e molto più vicino al corpo massivo, in questo caso, la stella. Il risultato? Noi vediamo che la stella oscilla, cioè va “a destra e a sinistra”. Come nel caso precedente, i nostri telescopi non sono in grado di vedere molte di queste oscillazioni.
Arriviamo al metodo usato per trovare il nostro cugino Proxima b: se le oscillazioni laterali sono quasi invisibili, lo sono meno quelle che avvengono lungo la nostra linea di vista, ossia quando la stella, orbitando attorno al centro di massa, si avvicina e si allontana. Questo non perché vediamo la stella avvicinarsi concretamente, ma perché vediamo il suo spettro spostarsi. Lo spettro è l’impronta digitale della stella: con quello, sappiamo dire di che tipo è, la sua massa, le sue dimensioni, la sua composizione. È caratterizzato da righe, che hanno posizioni ben precise. Se queste righe si spostano, allora vuol dire che la stella subisce l’effetto Doppler, che è quello che vi fa sentire in maniera diversa una sirena d’ambulanza in avvicinamento o in allontanamento. Proxima b è molto vicino, e la stella molto piccola: questo è il motivo del perché siamo riusciti a rilevarlo, una stella più grande si sarebbe mossa troppo poco per notarne gli effetti.
Veniamo al metodo madre, quello che ci ha fatto scoprire la maggior parte degli esopianeti. Se il pianeta di un sistema extrasolare passa davanti alla stella, la luce proveniente da quest’ultima risulta attenuata. Se un telescopio nota che questo calo della luminosità è periodico, allora possiamo trovarci di fronte ad un pianeta. Esattamente come fa la luna con il Sole durante un’eclisse, oppure, se vi ricordate, come ha fatto Venere nel 2012, passando davanti alla nostra stella. La cosa più sconcertante di questo metodo è che tramite i transiti si possono vedere solo i pianeti che hanno le orbite messe di taglio rispetto a noi, e sono una frazione infinitesima! Osservando un pezzettino di galassia Kepler, il telescopio che usa questo sistema, ne ha visti oltre 1000: potete immaginarvi quanti sono i potenziali pianeti della galassia.
Gli ultimi due metodi non sono né così semplici da trattare, né di grande impatto come possono essere il metodo dei transiti o delle velocità radiali. Alcune stelle in formazione possiedono un grande disco di polvere che ruota attorno a loro: se ci accorgiamo che questa nube presenta dei “cerchi” vuoti, allora molto probabilmente quella polvere mancante è stata spazzata via da un pianeta in formazione un esempio, tuttora controverso, è Fomalhaut b. Il microlensing gravitazionale invece sfrutta la relatività generale, che dice che ogni corpo dotato di massa piega lo spazio-tempo. Pianeti particolarmente grandi possono piegarlo a tal punto da deformare la luce delle stelle alla quale orbitano attorno, ma i casi di questo genere si contano sulle dita di una mano.
Una cosa è certa: la comunità astronomica internazionale non è mai sazia di nuovi, sempre più strani metodi per comprendere l’operato della Natura: se vi viene in mente qualche buona idea per scoprire il prossimo pianeta extrasolare, il momento più giusto per dirlo è adesso. Pensateci.
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