Le prospettive per l’uscita dalla UE, contrariamente a quello che sostengono le destre populiste europee (ma anche i populisti del “superamento ideologico”), non sono affatto rosee per la Gran Bretagna. Anzi, il governo guidato da Theresa May potrebbe trovarsi a gestire le amare conseguenze di un “autarchico” futuro post-Brexit.
No, perché di fatto non l’hanno mai abbandonata. Alcuni paesi dell’Unione hanno adottato, in previsione dell’entrata nell’Euro, una moneta propria ma con un cambio con l’Euro confinato a delle bande di oscillazione. Allo stato attuale solo la Danimarca rimane in questo sistema di accordi nato con l’ECU, per gestire i fondi europei e favorire la stabilità monetaria interna. La Gran Bretagna vi aderì molto tardivamente e dopo gli shock finanziari provocati dalle pesanti speculazioni valutarie non è più rientrata nel sistema, a differenza nostra.
Tra l’altro il rischio connesso al potere di condurre una politica economica propria è molto alto. Leggasi esposizione più massiccia nei confronti di svalutazioni più o meno giustificate. Che possono portare la propria moneta ad essere la peggiore valuta sui mercati internazionali, nonostante dei risultati economici sopra le aspettative, o a farla addirittura scambiare dai propri cambiamoneta per meno dell’euro.
Se da un lato è vero che una moneta debole incentiva le esportazioni, a lungo andare pone problemi nell’acquisto delle materie prime da trasformare, perché banalmente il capitale in valuta propria perde potere d’acquisto nei mercati esteri tra due operazioni. La bilancia commerciale del Regno Unito, è peraltro in negativo, ovvero importano più beni di quelli che esportano.
Effetti tangibili della valuta debole (oltre le aspettative del 2% di inflazione della BoE) stanno offrendo il fianco a vere e proprie guerre commerciali, con conseguenti ricadute sui consumatori.
Di fatto la Gran Bretagna, complici le scelte economiche operate dalla Thatcher durante i suoi governi e delle gestioni poco efficienti a livello di management industriale, si trova ad avere poche industrie e altamente specializzate.
Sebbene la bilancia commerciale britannica sia in negativo, il suo comparto industriale produce circa il 10% di Valore Aggiunto Lordo (in inglese GVA) e impiega circa 2,6 milioni di lavoratori.
Le due maggiori, rivolte anche al mercato estero sono chimico-farmaceutica e trasporti, che comprende aerospazio-difesa, automotive e navale.
La prima soffrirà sicuramente la valuta debole, soprattutto nell’acquisto della materia prima principe: il petrolio. Tuttavia tali difficoltà saranno parzialmente compensate dal fatto che una delle maggiori compagnie petrolifere al mondo è BP e che nel medio-breve periodo il prezzo del petrolio non sembra destinato a salire vertiginosamente.
L’industria automobilistica ad esempio è divisa principalmente in due categorie: settori di ricerca di altissimo livello (Williams Engineering, McLaren, Ricardo solo per citarne alcune) oppure produzione massiva di proprietà estera.
Sulle ceneri della British Leyland infatti hanno fatto grandi fortuna le case giapponesi, per affinità legate anche alla “guida dal lato sbagliato” e al contempo alla necessità di affacciarsi sul mercato unico europeo.
Nissan produce praticamente tutta la sua gamma europea nel Sunderland, con l’esclusione dei veicoli commerciali e fuoristradistici, con oltre mezzo milione di veicoli l’anno.
Honda si attesta invece attorno ai 250.000 veicoli, mentre Toyota 190.000, che rende l’impianto sito nel Derbyshire l’unico impianto di produzione di auto ibride in Europa della compagnia, nonché il terzo impianto per volume di produzione ed il secondo più anziano a livello regionale.
Vi sono poi gli impianti produttivi di altri marchi, come Mini e Rolls Royce (in mano alla tedesca Bmw), Jaguar-Land Rover (di proprietà dell’indiana Tata), Lotus (rilevata dalla malese Proton) e Aston Martin (controllata da un gruppo italiano). Ma di fatto, l’industria automobilistica britannica, con una lunghissima e rispettabilissima tradizione, non è più formalmente di proprietà dei britannici stessi.
Ma guardando altri settori la situazione è analoga. L’industria aerospaziale britannica ha cinque grandi attori: Airbus, Bombardier, BAE Systems, GE Aviation e Rolls-Royce, oltre che rami di società di altri giganti, come la nostra Finmeccanica o la francese Thales.
La prima, Airbus, produce le ali in composito dei suoi modelli di punta in un impianto che è stato inaugurato nel 2013, garantisce 110.000 posti di lavoro tra posti diretti ed indotto e un giro d’affari annuo di 4 miliardi di sterline. Tali ali in composito vengono poi mosse da un curioso aereo cargo costruito ad hoc verso gli impianti di assemblaggio finale di Tolosa.
Tale modello di produzione distribuito è stato determinato dalla maniera in cui è nata Airbus, inizialmente un consorzio fra costruttori aeronautici francesi, tedeschi e britannici (con una aggiunta degli spagnoli ed una fuoriuscita dei britannici nel 2007). Il modello di divisione della produzione è conveniente finché ci si muove all’interno di un mercato libero (tant’è che Airbus è una Societas Europaea), ma qualora la società non riuscisse ad ottenere un “salvacondotto industriale” che la esulasse da obblighi burocratici e di rendicontazione finanziaria, potrebbe rivedere la propria strategia e spostare progressivamente le linee di produzione, magari in Francia. Con impatti sui summenzionati 110.000 posti di lavoro.
Un’industria senza fabbriche, che tuttavia è il settore principale dell’economia britannica. Si conta che circa 2 milioni di lavoratori siano impiegati nel solo settore finanziario e bancario. Settore bancario che è di fatto uno dei maggiori in Europa, con uno dei maggiori cluster che vanta 7.000 miliardi di sterline annuali di asset bancari controllati. Praticamente tra le 3 e le 4 volte il PIL dello stesso Regno Unito, a seconda del cambio del giorno.
Di nuovo, un comparto ampiamente favorito sia da una lunga tradizione, ma anche da una legislazione favorevole e dalla partecipazione al mercato europeo. Non a caso l’84% dei banchieri ha dichiarato in un sondaggio di votare per rimanere nella UE, malgrado le stringenti regolamentazioni europee.
Gli storici assicuratori Lloyd (i più grandi al mondo), hanno paventato la necessità di spostare almeno parte delle operazioni altrove (principalmente Dublino) per poter accedere lo stesso al mercato comunitario.
Addirittura un governo, quello del Giappone, ha scritto una lettera dove chiarisce la posizione del paese rispetto all’uscita dall’Unione Europea. Il paese guidato da Shinzo Abe ha infatti forti interessi in campo bancario, finanziario e industriale, con le tre succitate industrie automobilistiche e la conglomerata Hitachi.
Molti critici dell’Unione Europea portano come argomento l’eccessiva burocratizzazione di alcune materie e la quasi assurdità di alcune regolamentazioni. Come ad esempio quelle sul diametro delle fragole. Possono sembrare cose di poco conto, ma in realtà in ambito commerciale ed industriale è importantissimo porre degli standard comuni. Perché lo standard tutela ambo le parti da contenziosi giudiziari e garantisce rapporti commerciali più snelli e veloci.
Tant’è che addirittura il TTIP si è incagliato, tra le altre cose, per problemi legati alla tutela dei prodotti agricoli europei, che puntano più alla qualità che alla quantità, a differenza di quelli americani.
Nel campo dell’ingegneria invece la tendenza è quella di tendere ad unificare sempre più sotto gli standard, e l’Unione Europea in questo senso ha dato sempre un grosso supporto. Tanti prodotti, per essere venduti sul mercato europeo, devono rispettare le regolamentazioni europee. Nel 2013, al momento dell’ingresso della Croazia nella UE, la Bosnia-Erzegovina si è trovata frettolosamente a dover sia rientrare negli standard comunitari, che a costruire nuove dogane.
Può sembrare una cosa da nulla, ma all’attivazione dell’articolo 50 il Regno Unito perderà ogni potere decisionale sui nuovi regolamenti UE, quindi di fatto le industrie nazionali tedesche, italiane e francesi, avranno campo libero nell’imporre (tramite attività di lobbying) standard a loro più congeniali, con la possibilità di tagliare fuori i settori più competitivi. Tra l’altro contravvenendo allo spirito neoliberista, storicamente propugnato proprio dalla compagine britannica. Questo a meno che il governo di Theresa May, con a capo del ministero degli esteri l’eccentrico Boris Johnson, non riesca a strappare un accordo favorevole (soft Brexit), sulla falsariga di quello norvegese.
In Europa non sono favorevoli a quest’ipotesi né il Presidente del Consiglio Europeo Tusk, né Jean-Claude Juncker, tantomeno Frau Merkel.
La cosa più ironica di tutta la Brexit, è che, nonostante la campagna sia stata anche imperniata ampiamente sulla questione dei posti di lavoro concessi agli immigrati europei (alla fine lo UKIP è un partito di destra populista), per dare attuazione al disegno autarchico della “perfida Albione” sarà necessario un francese. Il capo negoziatore è infatti Michel Barnier, ex ministro degli esteri di Sarkozy e 3 volte commissario europeo.
Ma la “bassa manovalanza” dovrebbe venire da una delle più importanti (almeno dal punto di vista economico) ex-colonie britanniche: l’India. Paradossalmente, entrando nella UE, il governo di sua maestà ha progressivamente alienato tutti i negoziatori economici, perché non vi era più alcun bisogno di mantenerli, dato che le funzioni erano svolte da quelli comunitari.
Così di fronte alla squadra di mastini guidata dal “duro e puro Eurofilo” Guy Verhofstadt, a difendere le sorti economiche dei cittadini britannici, vi saranno ben pochi britannici.
In conclusione, difficilmente la Brexit sarà favorevole all’industria e all’economia britannica, che si troverà con ben poche armi a contrastare un gigante economico del calibro dell’Unione Europea ferito nel suo orgoglio. Un voto contro la globalizzazione, probabilmente ne porterà ancora di più.
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