Non esiste una giustizia assoluta, ogni giudizio è relativo e tale relatività è incredibilmente attraente per l’essere umano. Attrazione che diventa morbosa a causa della tendenza sempre più frequente verso uno dei due piatti della bilancia: quello del colpevole. Cavalcando naturalmente questa tendenza, il mondo cinematografico ci propone sempre più spesso punti di vista banalmente definiti cattivi; non è più sufficiente che lo spettatore si affezioni e trovi affascinante l’antagonista, la prassi sta ormai diventando quella di sottoporre forzatamente storie al cui centro si colloca la malvagità. Ma c’è un confine in questo scenario che non andrebbe mai superato: ecco perché Gomorra è un Narcos che ha smesso di sognare.
Due show televisivi così simili tra di loro ma anche così diversi. Persino uno spettatore sbadato sarebbe in grado di elencare i punti in comune tra questi due prodotti, entrambi tratte da vicende realmente accadute, entrambi filoni che prendono forma in terre dominate dalla corruzione e dalla criminalità. Da una parte la storia di famiglie camorristiche tra Scampia e Secondigliano, una trama che prende spunti da vicende distaccate che – in Gomorra – vengono rielaborate e collegate; dall’altra la storia di Pablo Escobar, il narcotrafficante colombiano più ricco e famoso della storia. Episodi conditi con dialetti e lingue esotiche, catchphrase e scontri sanguinari.
Ma non mancano caratteristiche profondamente differenti: dai primi minuti di Narcos è già chiaro che la voce narrante – e quindi il punto di vista dell’intera narrazione – è quello di un detective Americano, ben diverso dal modus narrandi di Gomorra, dove non c’è un punto di vista principale e inoltre manca totalmente l’impersonificazione della figura dello stato, le forze dell’ordine sono solo delle comparse poco interessanti. Da qui discende la differenza di registro: da una parte Gomorra a rispondere ai criteri del noir, dall’altra Narcos che si avvicina al poliziesco all’americana, con addirittura alcune caratteristiche simili alle detective story più classiche.
Gomorra è la cronaca di una violenza quotidiana che sta facendo marcire le fondamenta di un paese, Narcos è la ricostruzione biografica di un uomo che è riuscito a rendere il narcotraffico un pilastro dell’economia globale.
Nonostante le differenze, alcuni parallelismi rimangono interessanti, si pensi ad esempio ai personaggi di Pietro Savastano e Pablo Escobar. Nessuno dei due è un protagonista puro, eppure riescono ad emergere entrambi e quasi a trascinare l’intera serie con il carisma imprevedibile dei due personaggi; imprevedibile perché entrambi hanno un aspetto che rasenta l’anonimato, padri di famiglia leggermente in sovrappeso, capello brizzolato da una parte, baffo nazionalpopolare dall’altra; atteggiamento apparentemente pacato, sorrisi di conforto a parenti e amici, dietro ai quali si nasconde la freddezza spietata di un pluriassassino. Una parola – tipicamente una battuta d’effetto, in entrambi i casi emblema dell’intera serie – per decidere il meglio per gli affari, la vita di un uomo, le sorti di una famiglia.
Narcos completa l’arco narrativo accompagnando lo spettatore – con gli immancabili e ben architettati colpi di scena – a un finale rassicurante di cui si ha profondamente bisogno anche a livello inconscio; Gomorra, dopo aver conquistato con una prima stagione affascinante perché incredibilmente disturbante, finisce per creare – nella seconda stagione – una angoscia nauseante, causata dall’insopportabile ripetersi di quella violenza che, nonostante sia fedele e necessaria per il messaggio che si vuole trasmettere, diventa scontata e sgradevole.
Due opere senza dubbio degne di nota, entrambe rinomate a livello globale e apprezzate dalla critica. Ma se Narcos riesce a rientrare nei canoni del thriller marcando i confini fra bene e male in modo netto, Gomorra rimane intrappolato dalla stessa peculiarità che l’ha resa celebre: la violenza incontrastata.
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