Uscite le nomination per gli Academy Awards, sono tre i film che svettano per numero di candidature: 14 a La La Land di Damien Chazelle, 8 a Moonlight di Barry Jenkins e 8 ad Arrival di Denis Villeneuve. Quest’ultimo film, risulta essere una delle pellicole sci-fi più interessanti degli ultimi anni. Hollywood, infatti, ci aveva abituati al fantascientifico fatto principalmente di sequenze di azione. Un esempio sono le saghe recentemente riproposte di Star Wars e Star Trek.
Ma anche un film come Interstellar, il quale aveva fatto inizialmente pensare a un ritorno del genere verso un’estetica prossima a quella di 2001: A Space Odyssey, lascia la bellezza, la maestosità e la poetica dell’universo nel background, asfissiato com’è da un montaggio forsennato, da continui dialoghi e da colpi di scena senza fine. Arrival, invece, riavvicina il genere fantascientifico a Kubrick senza mai mostrare un solo fotogramma di universo, ma curando i silenzi e i tempi filmici, creando attesa e suspense (Hitchcock fa l’occhiolino), e penetrando nella psiche della protagonista sfruttando uno stile e un montaggio che ricorda molto le influenze di Malick.
Tutto questo grazie al regista Denis Villeneuve, il quale, seppur sconosciuto alla stragrande maggioranza del grande pubblico, in questi ultimi anni sta conquistando il favore della maggior parte dei critici e degli esperti del settore, e sta diventando uno dei più grandi registi della sua generazione, realizzando un successo dietro l’altro. Le più grandi qualità dei suoi film sono una regia impeccabile (fate attenzione a come utilizza il piano sequenza), una regia che vuole raccontare attraverso le immagini prima di farlo con i dialoghi, un utilizzo del sonoro che immerge lo spettatore completamente nel mood del racconto, e soprattutto una trama che fa nascere quesiti, che ci fa interrogare su noi stessi.
Ma partiamo dagli inizi. Villeneuve, canadese, nasce nel 1967, e negli anni ‘90 inizia la sua carriera nel mondo del cinema realizzando diversi cortometraggi, fin da subito molto premiati nei festival di cinema internazionali. Nel primo decennio del 2000 realizza due lungometraggi acclamati dalla critica: Maelström e il controverso Politecnique. Il 2010 è l’anno del grande successo globale con Incendies (in italiano La donna che canta), film che narra gli orrori della guerra dal punto di vista dei sopravvissuti, dunque di chi ne può vedere solo le conseguenze, e che velocemente diventa un film di culto.
Successivamente dirige Prisoner (2013), un thriller mai banale, dove analizza la tematica della complessità della verità e della vendetta personale, senza far trapelare opinioni personali e lasciando allo spettatore il piacevole compito al termine della pellicola di rifletterci su e di decidere cosa è giusto. La cinematografia da antologia di Roger Deakins (13 nomination agli Oscar, per intenderci, e poi si parlava di Di Caprio) rende l’ambientazione ancora più cupa e ansiogena, e altrettanto eccezionali sono le performance di Hugh Jackman e Jake Gyllenhaal.
Sempre con quest’ultimo come protagonista, Villeneuve realizza poi Enemy (2013), thriller psicologico incentrato sull’esplorazione del subconscio della mente di uno schizofrenico (e questa è solo una delle molte interpretazioni). Come tutti i film precedenti, Enemy (e questo è uno dei più grandi pregi del regista) non solo fa rimanere lo spettatore incollato alla sedia senza scendere mai nel banale, ma stuzzica il suo intelletto per giorni.
Nel 2015 realizza Sicario, film d’azione incentrato sulla guerra alla droga al confine tra Usa e Messico. Sicuramente si attesta tra i migliori del genere, infatti oltre alla già citata egregia fotografia delle sue pellicole e alla sua grande abilità nel dirigere gli attori, Villeneuve continua la sua analisi della psiche umana, questa volta soffermandosi sull’angoscia del trovarsi a lottare inutilmente contro qualcosa di più grande di sé stessi. Infine il 2017 è ancora un anno importantissimo per il regista canadese: in primo luogo per il già citato Arrival, e in secondo luogo per un altro film fantascientifico, remake di una colonna portante del genere, ovvero Blade Runner 2049.
Osservando le premesse di questo regista (o si può già parlare di autore?), che non si lascia intimidire dalle grandi produzioni, ma che al contrario riesce sempre a dare un tono personale e autoriale alle sue opere nonostante siano blockbuster, si può sperare che questo film non sia l’ennesimo remake-spazzatura cui Hollywood ci ha abituato per molti anni, ma che possa diventare un sequel degno dell’originale, e non una copia passata per citazione. Per una volta, l’hype sembra essere ben riposto…
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