La Cina ha un problema e questo problema si chiama Corea del Nord. I legami tra i due paesi sono chiari e profondi: affondano nel secondo conflitto mondiale quando i partigiani comunisti coreani e cinesi combattevano fianco a fianco di volta in volta contro il Kuomintang o contro l’Impero Giapponese. Al termine del conflitto, l’assistenza militare di Pechino verso Pyongyang continuò con il “salvataggio” della Corea del Nord quando, dopo il magistrale gancio di MacArthur presso Incheon, gli americani erano arrivati fino al fiume Yalu, che segna il confine tra Cina e Corea del Nord. La controffensiva cinese permise alle forze comuniste di far indietreggiare il fronte fino al 38esimo parallelo. Altra occasione in cui la Cina ha aiutato Pyongyang è stata in occasione della carestia di metà anni ’90, quando Pechino ha riavviato la fornitura di granaglie in modo da evitare che metà della popolazione nordcoreana morisse d’inedia.
La domanda sorge spontanea: per quale motivo Pechino continua a mantenere in vita il regime nordcoreano? Una possibile (ma assolutamente parziale) risposta risiede nell’alleanza militare sussistente tra i due paesi: nonostante le dimensioni ridotte del paese l’esercito nordcoreano conta oltre un milione di effettivi ed è il quinto al mondo (quarto contando le riserve). In caso di necessità difensive l’artiglieria coreana (che conta su oltre 2100 lanciamissili multipli) può tornare estremamente utile, senza contare l’elevato numero di soldati che Pyongyang è in grado di mobilitare. Ma se da un lato la Corea del Nord ha un esercito molto grande quello cinese è il doppio: l’effettiva assistenza in un eventuale conflitto su larga scala è limitata ed è pensabile che, dato il tasso tecnologico, le forze armate nordcoreane diventino presto un peso per la Cina. La motivazione principale risiede sullo stesso territorio occupato dal regime di Kim Jong Un, ovvero la possibilità di fare da stato cuscinetto tra la Corea del Sud (alleata statunitense) e il fiume Yalu. Una Corea riunificata sotto Seul significherebbe, per Pechino, avere i missili di una potenza rivale sul proprio confine.
Gli avvenimenti delle ultime due settimane hanno portato nuovamente scompiglio a Pechino, costretta a rincorrere Pyongyang quasi come si trattasse di un monello un po’ discolo da disciplinare: nonostante le continue reprimende cinesi verso le attività nucleari e missilistiche nordcoreane i sottoposti di Kim Jong Un hanno più volte dato luogo a test che hanno riscaldato molto gli animi nella regione estremo orientale e in Nord America. Sono notizia di lunedì le prove di accelerazione dei nuovi motori per i missili ICBM (Inter-Continental Ballistic Missile) nordcoreani: composti da un motore centrale e da quattro motori ausiliari, questi propulsori segnano una svolta nella missilistica nordcoreana, fino ad ora esclusa dalla portata intercontinentale.
Naturalmente per realizzare un vettore adeguato mancano ancora diverse componenti (quali la balistica, ad esempio), ma la notizia della probabile realizzazione di un motore adatto spaventa in molti, in primis la Corea del Sud (che dalla realizzazione di un ICBM non avrebbe molto da temere in quanto già a portata di tiro) il cui portavoce del ministero della difesa ha commentato che quella del programma spaziale è una copertura simile a quella utilizzata da Pechino nello sviluppo dei Dong Feng 5 (anche questi missili ICBM) e che i commentatori internazionali hanno ragione ad esporre e attaccare il programma nucleare della Corea del Nord.
Considerando le tempistiche, è anche facile pensare ad una provocazione da parte del governo di Pyongyang, dato che i test sono avvenuti poco prima dell’incontro tra il Segretario di Stato statunitense Tillerson e Xi Jinping e subito dopo l’offensiva diplomatica dello stesso, il quale ha dichiarato che quando si tratta della Corea del Nord, ogni opzione (ivi compresa quella militare) rimane sul tavolo. C’è da immaginare che nel momento in cui il presidente cinese e il magnate del petrolio ora a capo della diplomazia statunitense si sono seduti uno di fronte all’altro, il primo debba essersi sentito piuttosto a disagio.
L’8 marzo Pechino ha chiesto a Pyongyang di fermare i test nucleari (il più importante dei quali avvenne in un impianto sotterraneo il 12 febbraio del 2013 e generò un terremoto avvertito in Cina e Giappone oltre che nella vicina Corea del Sud) che stanno provocando gli Stati Uniti più di quanto non facciano quelli missilistici. Kim Jong Un ha probabilmente la bomba, ma gli manca la tecnologia per miniaturizzarla e montarla su un vettore. Un probabile ordigno nordcoreano al momento peserebbe una tonnellata e pensare che sopravviva integro e funzionante al rientro dallo spazio ad oltre 50 G è praticamente impensabile.
La Cina, come appare drammaticamente chiaro da tempo, vuole che vi sia pace. Non tanto perché l’esercito cinese non reggerebbe il confronto con quello statunitense, quanto per il danno che porterebbe alla stabilità della regione e, di conseguenza, alla fluidità dei commerci, vero fulcro della politica estera di Pechino. In tale ottica vanno lette le “offensive” diplomatiche nel Mar Cinese del Sud e gli accordi con Singapore in ottica antipirateria. La Corea del Nord, dal canto proprio, usa tali provocazioni per riaffermare la propria volontà di potenza e come deterrente contro le esercitazioni militari congiunte tra Corea del Sud e Stati Uniti, che l’establishment militare di Pyongyang vede come dei preparativi all’invasione. La solidità del regime è strettamente legata alla volontà cinese di mantenerlo in piedi: a questo punto per Pechino si presenta una scelta da compiere, ovvero se cedere ai capricci nordcoreani o staccare la spina al regime una volta per tutte e magari permettere l’insediamento di un proprio fantoccio o della riunificazione. La scelta a cui la Cina è chiamata è tra una Corea unita e una divisa e turbolenta e il peso fondamentale in questa importantissima decisione lo farà la percezione di Pechino di minaccia da parte delle potenze rivali, la quale rischia di essere negativamente distorta dalle parole della campagna elettorale di Trump.
Studente studioso delle Relazioni Internazionali, particolarmente interessato a temi vicini alla Sicurezza (Inter)Nazionale. Orologiaio che cerca di capire il funzionamento di un sistema composto da 7 miliardi di ingranaggi.
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