Internet annuncia: Alter Bridge – Fortress
Farth risponde: “Tipregofachenonsiaunaciofecatipregofachenonsiaunaciofecatipregofachenonsiaunaciofeca”
Con gli Alter Bridge ho sempre avuto un rapporto decisamente strano, quasi come se fossero una trombamica con cui a fasi alterne finisco col restarci sotto e dopo sono volatili per diabetici. L’uscita del loro quarto album “Fortress” e la possibilità di scriverne una recensione costituiscono l’ultimo capitolo di una storia che inizia nel 2004 (per loro) e nel 2008 (per me). Visto che il mio parere è influenzato da questa luuuuuuuuuuuuuunga storia, tanto vale farvene un resoconto e piazzarci pure una piccola retrospettiva sul gruppo.
Scopro della loro esistenza un’estate al mare leggendomi un numero di Metal Hammer, c’è il report estatico ed entusiasta di un loro concerto.
La mia reazione fu:
“E sticazzi.”
Al che chiusi la rivista, tirai lo sciacquone, feci quello che dovevo fare e uscii per andare in spiaggia.
Nei mesi che seguono ne sento parlare ancora, facendo zapping trovo il video di “Open your eyes”. Mi resta un po’ in testa, ma non vado oltre.
In quel periodo dopo mesi di attesa riesco a limonare duro una con cui uscivo da un pezzo, con cui condividevo un sacco di cose, ci raccontavamo di tutto, etc. e praticamente pensavo di aver vinto l’impossibile, di aver fottuto il concetto di friendzone. Lei mi presenta a destra e a manca come “il suo ragazzo”, io alterno le mie giornate tra un’erezione che abbatterebbe una porta e un batticuore da manga per ragazzine. Poi un sabato 29 novembre qualunque viene da me per un pranzo e dopo aver mangiato mi fa: “Scusa, ho fatto una cazzata. Restiamo amici.”
La mia reazione fu molto composta. Lei andò con le sue amiche ad un concerto la sera stessa e il gruppo che suonava erano di nuovo loro, gli Alter Bridge.
Istintivamente, non so perché, ebbi ancora meno interesse nei loro confronti.
Poi un paio di mesi dopo mi impuntai pensando che un piccolo incidente di percorso non poteva impedirmi di scoprire un gruppo nuovo.
No, vi giuro, non era una forma di riscatto personale.
Ve lo giuro, davvero.
Ma sul serio, ve lo giuro.
Fatto sta che attaccai ad ascoltarmi i due dischi degli Alter Bridge usciti fino ad allora, “One day remains” (2004) e “Blackbird” (2007). Per un paio di anni preferii il primo al secondo, poi iniziai a smetalleggiare con la chitarra e iniziai ad apprezzare di più “Blackbird”, in quanto più equilibrato tra parti di chitarra belle pese per velocità, cattiveria e gusto e le parti cantate da Myles Kennedy, con la sua voce in bilico tra Layne Staley, Robert Plant e Jeff Buckley (tra parentesi: Myles Kennedy oltre ad essere davvero un ottimo cantante suona pure la chitarra piuttosto bene e ha pure fatto una jam session con Jimmy Page, John Paul Jones e Jason Bonham perché era stato preso in serissima considerazione come possibile sostituto di Robert Plant nell’incarnazione di un certo gruppo. Ah, dimenticavo: è pure un bell’uomo, assomiglia parecchio a Kevin Bacon e ha 44 anni portati benissimo e pure una moglie gnocca. LO STRONZO)
“Blackbird” rimase il mio preferito anche quando uscì “Alter Bridge III” nel 2010. A dirla tutta, il terzo lavoro della band mi deluse. Due, tre pezzi interessanti, una grande bravura di fondo nel comporre, orchestrare e produrre, ma anche un’aria generale da “dai, un ritornellone melodico non lo si nega a nessuno” (fu per questo che un mio carissimo amico coniò la frase “Praticamente hanno fatto un disco con le canzoni per le pubblicità della Vodafone”). Inoltre fu quello il momento esatto in cui, esattamente com’era successo ai Muse in precedenza, i concerti cambiarono drasticamente fauna: prima prototrentenni orfani di un’adolescenza anni ’90 e metallari di tutte le età e le forme, ora cani e porci, coppiette e alternativi da liceo.
Sì, lo so, dopo un discorso del genere dovrei
A) pulirmi gli occhiali con la montatura spessa perché mi è arrivato uno schizzo di mocaccino preso da Starbucks e
B) fare una foto da mettere su instagram al mio muffin appoggiato su un libro di David Foster Wallace.
Ma non divaghiamo.
Due anni dopo esce “All I was”, il disco da solista di Mark Tremonti, chitarrista e mente del gruppo. Ed è amore: ha una voce completamente diversa da quella di Myles Kennedy (che nel frattempo ha vinto la lotteria mettendosi a fare dischi e tour con Slash. LO STRONZO), le composizioni sono molto più metallare e aggressive, non c’è la ricerca ossessiva dell’aggancio melodico, anzi, Tremonti ci sputa sopra esattamente come sputazza a destra e a sinistra quando parte con uno dei suoi assoli dal vivo e anche quando piazza ritornelli relativamente orecchiabili, lo fa con grande classe scartando agilmente ogni possibile banalità.
È il 2012 quando esce “All I was” e un anno dopo arriva Fortress, quarto lavoro degli Alter Bridge. Il singolo “Addicted to pain” mi ha fatto cagare male (praticamente una strofa, dei riff e delle melodie piuttosto galvanizzanti, il tutto ammazzato da un ritornello la cui dinamica è “Cazzo, ci siamo dimenticati di accelerare”) e l’album lo aspettavo con un misto di trepidazione e terrore.
E invece è stato di nuovo amore.
Il figlio incazzato come una belva di un ipotetico incrocio tra “Blackbird” e “All I was”: poco incline ai ritornelloni melodici che tanto mi avevano procurato eruzioni cutanee su “Alter Bridge III” e invece molto vicino alla prova solista di Tremonti, crepuscolare, quasi inquietante nei lenti (“Lover”) ed epicamente abrasivo nei brani più veloci o pesanti (“Cry of Achilles”, “Bleed it dry”, “Cry a river”). È un disco complesso, che richiede tempo e più ascolti, ma già ad un primissimo impatto la sensazione costante è di autentica esaltazione, a parte forse tre momenti ben precisi: i ritornelli di “Addicted to pain” e di “Farther than the sun” (quest’ultimo forse troppo melodico, che però si salva grazie ad una gestione delle dinamiche molto, ma molto, ma molto, ma molto più riuscita) e la ballatona, comunque ben confezionata, “All ends well”, che non mancherà di far partire qualche limone da interrompere a suon di gomitate nelle gengive durante i concerti.
Vocalmente parlando Myles Kennedy tira fuori la sua prova definitiva, che prende il meglio di tutta la sua carriera e lo condensa in un disco che passa da parti sussurrate molto atmosferiche a momenti di pura epicità hard rock/heavy metal. Inoltre anche Mark Tremonti, fresco dell’esperienza solista e di una riuscita parentesi su “Alter Bridge III”, si presta finalmente ai microfoni come protagonista: eccolo infatti ritagliarsi uno spazio vocale in grande stile in “Water rising”, mentre nel resto del disco si propone con seconde voci mai fuori posto, sempre pronte ad intrecciarsi ad arte con le parti vocali di Kennedy.
Chitarristicamente parlando, c’è veramente tantissimo di cui parlare in “Fortress”: gli arrangiamenti sono sempre molto ricercati senza però sacrificare la voglia di fare riff tritaossa, gli assoli della premiata ditta Tremonti-Kennedy hanno assunto connotati più blues e meno metallari che in passato, ma il contrasto che viene a crearsi con l’aggressività e la complessità dei riff è veramente gustoso. Inoltre non mancano momenti decisamente più tecnici, per cui anche i più onanisti tra di voi saranno ben felici di ascoltarsi questa quarta fatica degli Alter Bridge.
La produzione di primo acchito sembra rifarsi direttamente a quella di “All I was”, con suoni molto pompati: chitarre belle spesse, dalle distorsioni grasse e corpose, mentre basso e batteria si occupano di sospingere i nostri timpani il più possibile all’interno del nostro cranio (provare per credere, con le cuffie giuste e i bassi belli amplificati). Personalmente preferivo il suono un pochino più ruvido presente in “Blackbird” e “One day remains”, ma l’eccessiva patinatura di “Alter Bridge III” per fortuna è solo un ricordo.
Che dire in conclusione? Un disco da 8 al primissimo ascolto, voto destinato a crescere probabilmente nei prossimi giorni. Mi risulta anche che a Novembre Tremonti, Kennedy & co. vengano qui in Italia per un paio di date… Quale occasione migliore per andare a sentirsi questi nuovi brani dal vivo e prendere a gomitate nelle costole qualche coppietta di sedicenni?
Magari trovo pure la mia ex…
Non molto tempo fa uno studente specializzando operante a Milano venne ingiustamente condannato da un tribunale militare. Evaso da un carcere di massima sicurezza iniziò a spacciarsi per studente Erasmus. E' tuttora ricercato, ma se Spina, Frullo e Weber hanno un argomento di nicchia che interessa a quattro gatti, forse, ogni tanto, ingaggiano il famigerato... COLIN FARTH.
30 Maggio 2017
4 Maggio 2017
6 Aprile 2017
11 Marzo 2017
2 Marzo 2017
Non molto tempo fa uno studente specializzando operante a Milano venne ingiustamente condannato da un tribunale militare. Evaso da un carcere di massima sicurezza iniziò a spacciarsi per studente Erasmus. E' tuttora ricercato, ma se Spina, Frullo e Weber hanno un argomento di nicchia che interessa a quattro gatti, forse, ogni tanto, ingaggiano il famigerato... COLIN FARTH.
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. This category only includes cookies that ensures basic functionalities and security features of the website. These cookies do not store any personal information.
Any cookies that may not be particularly necessary for the website to function and is used specifically to collect user personal data via analytics, ads, other embedded contents are termed as non-necessary cookies. It is mandatory to procure user consent prior to running these cookies on your website.