Quando si parla di musica, si sa, ci sono sempre infinite diatribe. Chi scrive le considera TUTTE deleterie e all’origine sbagliate, dato che nulla è oggettivo nella musica e il GUSTO personale, che deriva da miliardi di diversi fattori, è ciò che fa da padrone. E, di contro, giudicare la musica solo dalla parte tecnica è allo stesso modo sbagliato, e uccide il piacere di ascoltarla.
Un genere spesso citato da chi si definisce fuori dagli schemi, e dotato di maggior comprensione musicale, è il jazz.
In questo spazio spesso dedicato a generi più in “voga” o, anche nel loro essere “underground”, più accettati, ho allora pensato di parlare, per una volta, anche di questo genere che vanta una complessità e una forma che per forza di cose, quando non compresa o sovrinterpretata, genera orde di fanboy (anche se spesso “boys” non sono) scatenati, un po’ hipsterici e con l’aria intellettualoide. Tipi da Caol Ila in locali fumosi.
Miles Davis. Stiamo parlando di un baluardo del jazz come lo intendiamo oggi, che ha collezionato collaborazioni su collaborazioni -ad esempio Charlie Parker- in qualità di trombettista . Nella sua formazione appare il fatto che è stato fautore, fra gli altri, della svolta “cool” -il cosiddetto “jazz freddo”, ha portato avanti l’ “hard bop” ma soprattutto, collocandosi praticamente in tutte le branche del jazz, ha dato inizio a uno dei movimenti più interessanti della musica moderna (e personalmente uno dei miei preferiti), e cioè la “fusion”, quel genere molto tecnico a metà fra rock e jazz e che vede in musicisti come Pat Metheny, Victor Wooten o Steve Lukather i massimi esponenti moderni. Nei ’60 Miles aveva riunito un quintetto destinato a fare storia: in esso si distinguevano il giovane pianista Herbie Hancock e il sassofonista Wayne Shorter. Miles Smiles
Miles Smiles è un disco forse poco conosciuto ai più, ma comunque figlio di questa unione mentale e musicale. Le caratteristiche generali sono una profonda onestà di suono. Si tratta di un jazz senza sbavature (per quanto sia possibile dare tale accezione al jazz), brillante e continuo, senza esplosioni di estro o atmosfera, ma certamente con una sincerità di fondo e un’esperienza da vendere. Forse tutto ciò deriva anche dal fatto che Davis non ha composto personalmente ogni canzone, ma ha lasciato spazio, com’è giusto che sia, agli altri componenti. D’altronde il jazz, da sempre simbolo dell’estro e del genio individuale, forse ne risentirebbe, se fosse altrimenti. In “Miles Smiles” il suono è ancora acustico, prima della svolta elettrica del quintet, e paradossalmente lineare.
Il genere risulta dunque un jazz bello e buono con qualche spunto fusion e funky.
1. Orbits
2. Circle
3. Footprints
4. Dolores
5. Freedom Jazz Dance
6. Gingerbread Boy
Allego dunque la tracklist, composta da 6 organici pezzi, con un video rappresentativo. Have fun.
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