Risale a lunedì sera l’ultimo atto di Isis sul suolo europeo: l’attacco kamikaze, che ha lasciato sul terreno della Manchester Arena 22 morti e più di un centinaio di feriti, è stato rivendicato dal gruppo terroristico martedì in giornata. Un attentato reso ancora più odioso dal fatto di aver mirato a un pubblico di giovanissimi, ma per il quale la sola valutazione in termini di atrocità non basta per comprendere la reale incidenza del fenomeno jihadista nel Regno Unito. Messaggi di cordoglio e hashtag di preghiera, infatti, non forniscono di per sé risposta a chi voglia chiedersi da dove provengano, e come agiscano, le frange britanniche del terrorismo islamico.
La Gran Bretagna non è certo nuova a simili eventi: in un certo senso, si potrebbe affermare che l’attacco alla metropolitana di Londra (2005) sia stato una pietra miliare nella formazione del modus operandi proprio del terrorismo contemporaneo. In quel caso i quattro terroristi – tutti cittadini britannici – operarono in completa autonomia, senza ordini diretti da parte di al-Qa’ida, la quale preferiva in linea di massima coordinare gli attacchi dall’alto.
Il “merito” di Isis, non è un segreto, è stato appunto quello di sfruttare a proprio vantaggio il decentramento in cellule indipendenti, collegandolo ai recenti fenomeni migratori. L’attacco strategico, diretto a obiettivi “politici”, è stato così sostituito dal terrorismo nel senso stretto del termine, volto a creare fratture sociali e perpetuare l’alienazione degli immigrati rispetto agli autoctoni. Ne risulta, ovviamente, una maggiore possibilità che gli interessati cadano vittima di radicalizzazione e vadano a ingrossare le fila delle armate jihadiste.
In effetti, sarebbe arduo affermare che investire quattro passanti e accoltellare un poliziotto (come avvenuto a Londra, lo scorso 22 marzo) costituisca, per Isis, un atto di per sé efficace su scala macroscopica. Si tratta però di una scintilla in una polveriera che, nel Regno Unito, è voluminosa almeno quanto la sua corrispettiva nella ben più discussa Francia. Il numero di immigrati di religione islamica, infatti, è rilevante già a partire dagli anni Ottanta, e da allora in costante crescita. La composizione etnica dei 3 milioni totali di musulmani britannici (il 5,4% della popolazione) rileva come il 3% di essi siano “inglesi o irlandesi bianchi”: in assenza di dati di censo più specifici, una discreta conoscenza della storia migratoria verso la Gran Bretagna può aiutare a comprendere come la quasi totalità del restante 97% sia costituita da immigrati di prima, seconda e anche terza generazione: la maggior parte di questi, cittadini britannici a tutti gli effetti.
Basti pensare alla cellula di Isis nota come “The Beatles”: di essa, assieme a “George”, “Ringo” e “Paul”, faceva parte il più noto boia “Jihadi John”. Così denominati dai propri prigionieri a causa del loro forte accento inglese, in effetti i quattro jihadisti erano tutti londinesi, e preferivano conversare nella propria lingua materna anziché in un arabo col quale sembravano fare particolare fatica.
Anche in virtù dell’englishness degli odierni foreign fighter, indicare la provenienza e la religione come diretti responsabili del terrorismo sarebbe un’affermazione non solo xenofoba, ma infondata: semmai, l’alienazione e la successiva radicalizzazione nascono da due elementi che, pur generati dall’origine dei cittadini immigrati, sono frutto di errori trentennali nell’applicazione delle politiche sociali.
In primo luogo, l’integrazione: non è un segreto che nel Regno Unito, come altrove in Europa, le comunità musulmane costituiscano spesso e volentieri delle enclave separate, complice il tradizionale conservatorismo della working class britannica che, in tempi ben diversi e non sospetti, già tendeva a emarginare i protagonisti delle prime ondate di immigrazione – prevalentemente pakistani e bengalesi. Nonostante due ricambi generazionali, ancora oggi gli immigrati di religione musulmana sono principalmente stabiliti in poche grandi comunità, cosa che ha enormemente limitato la reale possibilità di integrazione positiva nel resto della popolazione. Tra esse spiccano – per numero sia assoluto che relativo rispetto al totale – alcuni sobborghi periferici di Londra, ma anche Birmingham, da decenni meta dell’immigrazione indo-pakistana, e la stessa Manchester, sede di una rete di reclutamento estesa che ha “allevato”, in un diametro di meno di 3 miglia, un gran numero di jihadisti inglesi noti e recentemente attivi.
Il secondo elemento è la condizione economica, anch’essa ben prevedibile a causa della natura stessa dell’immigrazione verso Paesi più benestanti, e a freno della quale lo Stato d’oltremanica, sempre più proiettato verso il liberismo thatcheriano, non ha fatto quanto realmente in suo potere. Tra gli immigrati musulmani si registrano tassi di disoccupazione tra i più alti del Paese, e la maggiore possibilità di non possedere la casa nella quale si vive. Ciò, ovviamente, incentiva il crimine: il 14% della popolazione carceraria britannica è musulmana. Quest’ultimo fatto è particolarmente rilevante poiché la prigione, oltre alle comunità ristrette, è uno dei luoghi in cui, complici le influenze e la frustrazione, esiste maggiore possibilità di radicalizzazione.
Ciò significa che i 3 milioni di musulmani di Albione siano tutti potenziali terroristi? Certamente no: nonostante la situazione socialmente sfavorevole, sono solo 850 le persone che hanno ceduto al fascino del jihad e si sono unite, da foreign fighter, alla causa di Isis e organismi affini. Si calcola che metà di esse abbia poi fatto ritorno in terra natia, contribuendo all’ulteriore sviluppo delle reti indipendenti in espansione nelle comunità islamiche europee. In questo senso, il nemico più pericoloso è la percezione dell’opinione pubblica rispetto al terrorismo fondamentalista, che indubbiamente spinge la stragrande maggioranza di musulmani pacifici verso posizioni di simpatia, se non aperto supporto, verso le frange estreme della propria comunità interna. Nel Paese, infatti, già a partire dai meno recenti attentati in Francia, i crimini a sfondo anti musulmano si sono triplicati e sono in costante aumento. Tendenza, questa, che certamente favorisce la discriminazione percepita e la “sollevazione” voluta da Isis, ma che al momento non sembra in grado di essere invertita con il solo utilizzo del buon senso, da nessuno dei due lati della barricata.
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