Il mese di ottobre è stato sicuramente impegnativo: tra grandi ritorni e anniversari importanti, noi non ci siamo fatti mancare niente. Vi abbiamo insegnato un po’ di cose su come suonare un basso, vi abbiamo parlato di gruppi famosi per sbaglio e vi abbiamo guidato all’ascolto di artisti discussi oltre che alla scoperta di musica nuova. È stato un mese di Nobel e di discussioni, ma anche un mese di bei concerti tra Roma, Bologna e Milano . Ottobre è stato un mese impegnativo ed è giusto lasciarlo consigliandovi un po’ di musica bella.
Ah, nel caso voi foste ancora single, forse dovreste seguire i nostri consigli .
La scena indie italiana sta passando uno dei suoi periodi più floridi. Ormai non è più strano trovare in rotazione nelle radio nazionali o ospiti alla Rai artisti che, fino a qualche anno fa, erano conosciuti solo da una nicchia di ascoltatori; tra questi, I TheGiornalisti sono quelli che tra tutti hanno avuto una forte evoluzione e questo album ne è la prova.
Completamente Sold Out continua la deriva pop (in senso positivo ovviamente) che era cominciata con Fuoricampo del 2014, con tappeti elettroniche che sono ormai una specie di marchio di fabbrica del gruppo romano.
Una delle caratteristiche dei TheGiornalisti è il rifarsi alla tradizione pop italiana. Si sentono gli echi di Lucio Dalla e Venditti come gli scorsi album, ma non mancano le citazioni al primo Jovanotti né, sopratutto, in pezzi come Sbagliare a vivere, a Vasco Rossi. Lo stesso Tommaso Paradiso ha paragonato la loro musica alla serie tv Stranger Things, visto che anche loro vivono di citazioni senza esagerare e rendere il prodotto stucchevole.
Alcuni dei pezzi migliori che possiamo trovare sono la malinconica “Disperato”, “il tuo maglione mio”, la ironica e sdolcinata “Fatto di te” e il singolo che sta trainando il disco: “Completamente”, con il video che ricorda un film di Jerry Calà ma girato da Nanni Moretti.
Questo disco rappresenta una deriva pop del genere, molto spesso demonizzata ma che può portare degli ottimi risultati. Infatti, Completamente Sold Out è un buon prodotto con tutte le carte in regola per diventare una piccola icona generazionale. Forse l’unica pecca è proprio il titolo, che riprende le prime 2 tracce dell’album ma che può sembrare pretenzioso, cosa che il disco non è. (Gianni Giovannelli)
Il 14 ottobre è uscito ufficialmente l’ultimo attesissimo lavoro del rapper emiliano Murubutu, reso disponibile con qualche giorno di anticipo sull’account Soundcloud della IRMA Records, casa produttrice dell’album. L’uomo che viaggiava nel vento ci presenta per l’ennesima volta un Murubutu che dà lezioni di scrittura espressiva alla scena, ricoprendo a pieno il suo ruolo di professore sia a scuola che sul palco. Com’è possibile intuire dal titolo, i brani son tutti costruiti intorno al tema del vento, che viene ora visto come desiderio di fuga, simbolo di alienazione, ora come immagine di grazia e musicalità. Produzione eccellente nella quasi totalità dei pezzi, unica pecca la base di Grecale che usa come sample “River flows in You” di Yiruma e suona un po’ pacchiana se paragonata al resto dell’album, ma che si può tranquillamente perdonare di fronte a brani come Scirocco, fatto in collaborazione col rapper Rancore, e Levante, dove invece danno il loro contributo Dargen D’Amico e Ghemon sullo splendido beat di Kintsugi. Degno di nota anche Il re dei venti, pezzo fatto con la sua crew storica La kattiveria, che come loro solito consegnano all’ascoltatore il loro atipico genere di storytelling, marchio di fabbrica del gruppo. Murubutu con quest’album non fa altro che confermare il suo essere un’anomalia nella scena rap italiana,
anomalo nel lessico, anomalo nella delivery, anomalo negli argomenti, e la sua è un’anomalia decisamente ben accetta. (Marco Meloni)
Marie Davidson alla sua terza prova dà alle stampe un’opera complessa e personale, frutto delle esperienze live che l’hanno condotta nei club di mezza Europa. Un disco duale come il rapporto di amore-odio che l’artista ha instaurato con la realtà notturna, viva, bruciante, ma allo stesso tempo capace di condurre a uno stile di vita autodistruttivo.
Questa doppia natura non è confinata nella sfera concettuale: la musica stessa è un lucidissima commistione di synth dinamici, taglienti e di atmosfere calde e avvolgenti; al di sopra di questo tappeto elettronico il parlato di Marie, calmo, suadente, in pieno stile spoken-poetry, guida l’ignaro ascoltatore attraverso il mare caotico e ribollente, accompagnata da una ritmica incalzante e quasi marziale. Mare che culmina nella title-track finale, gioiello pop e manifesto del disco, in cui la voce diventa persino un ritornello cantato e decisamente catchy.
‘Adieux au Dancefloor’ è un disco influenzato dalla musica da club, ne raccoglie intimamente l’anima caotica, la convoglia e la spinge ben oltre i suoi già battuti confini, con una sensibilità e un’intelligenza di chi è ormai giunto a maturità artistica. (Simone Barondi)
I Phantogram ritornano con Three, che come suggerisce il nome è il terzo album in studio del duo americano. Josh Carter e Sara Barthel continuano nel loro percorso di sperimentazione, che però sembra ormai paradossalmente consolidato in un personalissimo genere musicale che spazia dall’elettronica al trip hop fino ad avventurarsi anche nell’indie rock. Forse è anche per questo che manca un po’: l’effetto sorpresa dato dai precedenti album, sapendo già più o meno cosa aspettarsi; non per questo risulta però un LP meno valido dei primi due.
La band di Saratoga ci consegna un album eterogeneo come ci hanno ormai abituati: non c’è una canzone che si possa ricondurre musicalmente ad un’altra presente nello stesso album. Questa può essere considerata un’arma a doppio taglio: se da un lato troviamo ogni singola canzone con una propria identità, è vero anche che viene a mancare la costruzione di album come progetto, dando più l’idea di una raccolta di canzoni.
Tolte però queste critiche, la qualità della produzione è eccelsa e non ha niente di invidiare ai lavori passati. Troviamo qualche punta di Grimes in “Calling All”, un po’ di London Grammar in “Destroyer” e una serie di richiami al passato che, appunto, rimangono tali. Non c’è niente che sappia di già sentito, e in un album (tutto sommato) sperimentale è una conditio sine qua non. (Samuele Raffa)
Uscito il 21 ottobre, You Want It Darker è l’ultima, sorprendente fatica di Leonard Cohen, leggendario cantautore canadese arrivato al suo quattordicesimo album in studio. Nonostante abbia ormai la bellezza di 82 anni, Cohen sembra non aver perso né la voglia di scrivere né la capacità di farlo: dopo 50 anni di attività, Cohen è ancora un lucido cantautore in grado di comporre in maniera elegante e raffinata.
You Want It Darker, come potrebbe suggerire il titolo, è un album in cui il tema centrale è quello della morte, in particolare data l’avanzata età di Cohen. È un errore, però, considerare questo disco come il suo testamento: infatti, nonostante sia consapevole di non avere ancora molti anni da vivere, Cohen ha sempre trattato dell’inevitabilità della morte e il suo rapporto con l’aldilà è uno dei temi centrali della sua discografia. You Want It Darker non è un arrivo, ma solo l’ultimo passo della lunga carriera di questo straordinario artista.
Il disco si apre con la title-track, un brano dal profondo sentimento religioso sottolineato dal coro ebraico che canta “Hineni, hineni”, le parole con cui Abramo si rivolge a Dio nella Bibbia. Cohen è pronto ad affrontare il suo destino, ma ciò non significa che nel disco pervada un sentimento di tristezza: l’autore non lascia spazio alla autocommiserazione e non mostra rimpianti, sembra essere soddisfatto della sua vita e degli obiettivi che riuscito a raggiungere nell’arco della sua brillante carriera. Difficile dire se Cohen regalerà al suo pubblico ancora qualche album, certo va detto che se questo è il suo modo di commiatarsi dal mondo della musica, non resta che inchinarsi e ringraziare uno dei più capaci cantautori dell’ultimo secolo. (Vittorio Comand)
15 Maggio 2017
26 Dicembre 2016
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