Mine, del duo di registi “Fabio e Fabio”, racconta la storia di Mike (Armie Hammer) – soldato fuggitivo da una missione fallita nel deserto mediorientale – che, braccato dai militari nemici, finisce bloccato, proprio sopra un ordigno, per cinquantadue ore. Sulla falsa riga di 127 Hours e Buried, è un film indipendente dal budget molto ridotto, ma che può contare su un cast e un produzione statunitense. Seppure osannato dalla stampa di settore italiana, sorge spontaneo il sospetto che tutto questo entusiasmo sia eccessivo.
In quella che sembra proprio essere l’annata di rinascita del cinema di genere italiano, si inserisce di peso Mine di Fabio Guaglione e Fabio Resinaro (o “Fabio e Fabio” come si firma il duo di registi). C’è evidentemente voglia di un ritorno al cinema nazionale che impressioni anche l’estero, sapendo raccontare – con la giusta forza – storie affascinanti, e addirittura creando, nei casi più estremi, veri e propri cult. Del resto, il nostro è stato il Paese che ha scritto capitoli importanti di generi come il western, l’horror e il poliziesco esclusivamente grazie alla capacità di registi di talento, spesso privi di un vero e proprio budget adeguato alle spalle. Eppure, nonostante questo passato di lustri, sembrava che il nostro cinema fosse condannato a tempo indeterminato a un torpore fatto di commedie mediocri, alternate a film spesso eccessivamente autoriali. È presto per dirlo, ma sembrerebbe che l’andazzo stia cambiando, grazie a un numero sempre maggiore di produzioni e di registi dotati del coraggio e dell’ambizione necessaria per raccontare storie e generi che, nel nostro Paese, spesso non hanno vita facile al botteghino. Se questo si era già potuto notare nell’ambito delle grosse produzioni, grazie a registi, per citarne una rosa ridotta e non esauriente, come Sorrentino, Solima e Garrone – di cui tutto si può dire, tranne che siano mediocri – ora pare di assistere anche a una rinascita del cinema indipendente italiano, grazie a produzioni come Lo chiamavano Jeeg Robot, Veloce come il vento e Monolith. Produzioni alle quali, oggi, possiamo aggiungere anche Mine.
Mine racconta la vicenda di un tiratore scelto americano, in fuga dopo aver fallito una missione nel deserto. Costretto a raggiungere il villaggio più vicino a piedi, dopo che una tempesta di sabbia ha reso inutilizzabili gli elicotteri di trasporto, il militare finisce con il suo commilitone in mezzo a un campo minato. Ed è proprio in questo momento che accade la tragedia: il suo compagno, scettico sulla possibilità che il terreno sia effettivamente disseminato di ordigni, non ci pensa due volte a buttarcisi a capofitto, finendo così a pezzi; al protagonista, d’altra parte, non va poi tanto meglio, visto che, accorrendo per soccorrere il compagno, finisce anch’egli sopra un ordigno, e rimane impossibilitato a muoversi per le restanti cinquantadue ore.
Realizzato con «circa la metà del budget di una normale commedia italiana», come dichiarano gli stessi registi, Mine stupisce sicuramente per ciò che concerne la resa tecnica, grazie a degli effetti speciali tutto sommato dignitosi per un film indipendente.
Sulla falsa riga di Buried (con cui ha in comune il produttore Peter Safran) e 127 Hours, il cuore del film è rappresentato dall’impossibilità di movimento del protagonista. Questo genere di film o lo si ama o lo si odia, non c’è spazio per le sfumature: i due terzi della durata della pellicola, il protagonista se li passa in equilibrio sull’ordigno, e il successo o il fallimento di produzioni del genere sta tutto nell’abilità di saper inventare espedienti intelligenti con cui accompagnare personaggio e spettatore fino al termine del film, possibilmente senza straziare di noia quest’ultimo. Se il fattore noia è superato senza grossi problemi – grazie alla costante tensione prodotta dalle sventure che, tra tempeste di sabbia e cani selvaggi, si accaniscono sul protagonista – non si può tuttavia dire che l’esperimento sia riuscito completamente.
Mine, infatti, nella mente dei suoi autori ambisce a comunicare per immagini e metafore, risultando un progetto spesso e volentieri eccessivamente pretenzioso. I due autori hanno voluto disseminare il film di immagini allegoriche, evidenziate da due figure, un padre e una figlia, che periodicamente fanno visita al soldato. Quello che i due registi vorrebbero dirci è che nella vita le mine, quelle che ci immobilizzano spesso in modo irrazionale, sono molte, ma bisogna saper andare avanti. La metafora è fin troppo debole, e non aiuta certo l’operazione di introspezione portata avanti dai numerosi flashback: un padre manesco, le ultime parole affettuose di una madre morente, la rissa con i ceffi del paese per far colpo sulla ragazza amata… Tutte situazioni viste e riviste che contribuiscono a dare un senso di piattume: un piattume che, con una caratterizzazione più intelligente e una storia introspettiva più interessante, si sarebbe tranquillamente potuto evitare.
Mine è un esperimento riuscito a metà. La formula è buona e, nonostante il budget, cast ed effetti fanno una figura più che dignitosa. Ma è proprio quando si tratta di costruire quel quid in più che avrebbe permesso alla pellicola di uscire dalla mediocrità che il film si perde mancando l’obiettivo. La resa della metafora immaginata dagli autori non riesce a convincere, prevalentemente per colpa di un’operazione di introspezione davvero troppo piatta, che rende male l’idea delle difficoltà che, similmente alla situazione in cui si trova il protagonista, nella vita ci possono immobilizzare. Un gran peccato perché, a fronte di un’operazione tanto coraggiosa e di premesse così interessanti, poteva sicuramente uscirne un prodotto più convincente.
Ventiduenne, veneziano di terra ferma. Scrivo di tecnologia e cinema.
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